Matteo D’Ambrosio ♦ “Gilberte” di Ignazio Apolloni




Nella sua apprezzabile Avvertenza, l’autore di Gilberte afferma che «il romanzo... ha finito con il diventare un impaccio alla letteratura». Effettivamente la narrativa del Novecento ha proposto una tale diversificazione di modelli testuali da rendere praticamente impossibile qualsiasi tentativo di prospettare una definizione forte del termine “romanzo” e un suo proficuo uso.
Del resto non potrebbe essere diversamente, se è vero che la cultura letteraria del nostro secolo è stata caratterizzata, sul versante teorico-­critico, dai rapporti con le Scienze del linguaggio, e, sul versante della scrittura; da una particolare attenzione rivolta alle diverse dimensioni e ai tanti elementi costitutivi del testo, di cui sia la creazione che i metalinguaggi sono stati chiamati ad acquisire una sempre maggiore consapevolezza.
Da questo punto di vista, le caratteristiche di Gilberte impongono anche di rimandare alla precedente attività e produzione dell’autore. Con i libri-oggetto, le “sketch poesie”, le “poesie impossibili”, gli “advertise poems”, Ignazio Apolloni è stato infatti un protagonista delle vicende della ricerca interlinguistica italiana; i cui risultati più avanzati hanno influenzato le sue prove narrative (non escluse le Favole per adulti).
Abbandonata dunque, in ragione della sua ormai realizzata defunzionalizzazione, l’etichetta di “romanzo”, Gilberte ci appare piuttosto come un macrotesto narrativo dalla particolare configurazione: i testi brevi in successione rivendicano una propria identità di senso come racconti autonomi, definiti, conchiusi, e come tali “consumabili”; nello stesso tempo, risultano predisposti, in ragione della logica narrativa sottesa, all’integrazione con altri, sulla base di alcune determinazioni primarie (a cominciare da quelle spazio­-temporali di cui l’autore si serve per predisporre il gioco possibile dei collegamenti e delle distanze). Al di là delle restrizioni istituite dal linearismo coatto della  scrittura, i singoli racconti (a volte semplicemente costituiti da un’unica, isolata proposizione) fanno insomma parte di una rete testuale molto più complessa e articolata rispetto alla continuità di sviluppo. Molti di essi, ad esempio, appartengono a loro volta ad altrettante storie particolari – anch’esse nello stesso tempo interdipendenti e dinamicamente autonome – che nel macrotesto confluiscono.
La rete dei racconti (dei loro rapporti) attende di essere progressivamente riconfigurata dal lettore, cui l’autore attribuisce  un’ampia ma inevitabilmente parziale libertà, i cui limiti corrispondono al significato degli elementi maggiormente ricorrenti, gerarchicamente rappresentativi dei valori del macrotesto: innanzitutto le voci narranti e il personaggio della protagonista; della cui identità finzionale sono addirittura previste designazioni multiple.1
Da notare che, nell'Avvertenza, l’autore manifesta una propria consapevolezza di quanto sopra descritto. Parla infatti di una «struttura complessa», di «un’opera labirintica caratterizzata da un coacervo di motivi e di nessi interni tali da renderla “aperta”».2
Tra le molte caratteristiche dell’opera meritevoli di particolare attenzione, va rilevato che in Gilberte le voci narranti corrispondono ad un personaggio-narratore (il fotografo Montefeltro; che tra i personaggi si muove), ad un narratore-personaggio, il quale, stazionando in un universo complementare che ne consente l’osservazione, racconta dell’universo in cui vive Gilberte. La “vita” del narratore-personaggio è a sua volta osservata dall’autore-personaggio. Insomma, è come se ci trovassimo di fronte a tre distinti universi, collocati ognuno all’interno dell’altro.
La striscia enunciativa, ovviamente di solito incompleta, è pertanto la seguente: l’ [autore empirico, Ignazio Apolloni] dice che l’ [autore del racconto] dice che il [narratore-personaggio] dice che il [personaggio-narratore il fotografo Montefeltro] dice che ...
La situazione è chiara al personaggio-autore; che nel brano seguente osserva gli altri due, trovandoli scarsamente distinguibili:
«Il narratore sottopone a verifica critica la costruzione del suo lavoro, e mentre se ne innamora prende continuamente le distanze dalla storia che intanto va creando, per evitare di restarne invischiato a tal punto da non potersi più distinguere l’io narrante dall’attante; il foglio di carta dall’inchiostro, lo scenario naturale che ispira le varie descrizioni dalla descrizione dello scenario naturale che si fa quando si scrive» (p. 81).
A dimostrazione del fatto che «a muovere le fila del racconto non è sempre l’autore», (p. 319) nella finzione di Gilberte il personaggio­-narratore parla del testo con altri personaggi e, condividendo quanto affermato dall’autore empirico nell’Avvertenza (!); giunge a dichiarare:
«Né so se potrà parlarsi di opera chiusa o aperta ad altre soluzioni. Persino non si può dire se sia un romanzo o un racconto ... Questa è questione che attiene alla letteratura» (p. 355).
Proprio nel momento in cui non è più possibile distinguere «l’io narrante dall’attante», il testo non rappresenta soltanto l’universo finzionalmente realizzato, ma racconta anche quanto attiene alla sua produzione attraverso la pratica della scrittura. A proposito degli eventi che accadono nell’universo del testo, il narratore-personaggio dichiara:
«[Li] sto vivendo nel momento in cui li scrivo. E ciò dico perché non sono certo di averli vissuti realmente» (pp. 79-80).
È del resto alquanto difficile stabilire, in un intreccio tra esperienza, memoria e immaginazione, se una storia è la rappresentazione linguistica di un vissuto, una sua interpretazione a distanza o una concretizzazione finzionale. Risulta del resto ugualmente complicato ipotizzare una percezione dei tre regimi che attribuisca ad ognuno uno statuto che lo distingua completamente dagli altri: 3 il processo di costituzione del testo è una relazione complessa tra intenzione, caratteristiche della finzione e valore cognitivo della scrittura.4
Riflettendo sulla forma-romanzo, anche le imposizioni della logica del processo di scrittura vengono ricondotte ad una loro possibile conversione finzionale:
«L’autore di Gilberte vuole parlare del romanzo come se il romanzo parlasse di se stesso pretendendo di farsi ascoltare» (p. 194)
Lo spazio letterario ha caratteristiche pluridimensionali, e quello che appartiene ad una di esse non è attribuibile o riscontrabile in altre, ma la finzione è in grado di eludere tutto ciò. Così in Gilberte sia il personaggio-narratore che il narratore-personaggio frequentano il personaggio-Gilberte. Nel primo caso: «Mi sono esercitato nel non pormi domande e di non farne neanche ai personaggi della mia finzione» (p. 203). E nel secondo: «Pensate: il narratore che si mette con il suo personaggio femminile; cose da brividi!» (p. 524); «Sorvolando su alcuni altri pensieri, troppo veloci per poter essere trattenuti e diventare materia narrante, mi soffermo su uno dei suoi soliti turbamenti» (p. 239);                                   «Le ho messo in bocca parole e circonvoluzioni di parole atte a catturare l’attenzione dell’interlocutore» (p. 234) (che; evidentemente, potrebbe essere anche il personaggio-narratore); «Si andava sviluppando la mia storia (di narratore) con Gilberte» (p. 210) 5
Non mancano le prove di reciprocità, affidate alla voce di Gilberte: «Perché il mio narratore mi abbia trascinata... Dovrei domandarlo a lui» (p. 236). Sul mondo del testo si affaccia ogni tanto, il/un personaggio-autore, che commenta quanto attiene al personaggio-­narratore: «Il mondo è pieno di questi strani personaggi, ai quali più nessuno presta ascolto. Il nostro narratore meno che meno» (p. 244). E il personaggio-narratore, reciprocamente, ha consapevolezza di quanto accade al personaggio-autore: «L’autore ... non ne è troppo sicuro: ed è per questo che infarcisce di visioni immaginarie – tratte molto spesso dal reale –  la storia personale di un personaggio creato dalla sua fantasia”. (p. 552)
Il narratore-personaggio registra le proprie riflessioni sul processo di scrittura,6 sulla propria relazione con il linguaggio e le relative responsabilità7 e su alcune sue specifiche modalità di sviluppo.8
A volte l’attenzione cade sui limiti dell’attività pragmatica-linguistica, in cui si è calato9 altre volte, il pensiero va ai probabili limiti del risultato che si appresta a raggiungere, ammettendo “la continua incertezza su come andrà a finire (p. 350) – «A pochi riesce di entrare nella letteratura mondiale con un proprio personaggio  e al personaggio di entrare nella testa della gente» (p. 168) – e più avanti, sui risultati espressivi raggiunti: “Invano si cercherà in questo racconto un aneddoto, un ossimoro, un’iperbole o una litote” (p. 178).
Trasformandosi in narratore-personaggio, il personaggio-narratore può fingere di entrare e uscire dall’universo di appartenenza («Ero uscito per un breve tratto dal libro» (p. 203); o assumere la responsabilità di intrattenersi a colloquio con la comunità dei lettori. 10
Concludendo, si può affermare che l’impianto narratologico di Gilberte costituisce la concretizzazione (vale a dire una tra le possibili dimostrazioni della plausibilità) di un assunto rintracciabile nel testo:
«Come un oggetto [il personaggio-narratore] possa diventare soggetto pensante [il narratore-personaggio] nel soggetto [l’Autore empirico] che lo pensa» (p. 239).

Ignazio Apolloni
GILBERTE
Novecento
Palermo 1994

note

1- «Solo con un arbitrio la Gilberte della prima parte del racconto è assimilabile a quella della quale sto parlando, perché è vero invece che tranne la comune matrice data dalla stirpe tutto il resto le diversifica. Sono diverse le epoche nelle quali entrambe vivono; diversi i generi artistici che prediligono; numerose le scansioni all’interno delle quali si muove la prima mentre una linea continua segna la progressione degli eventi cui dà vita la seconda. Detto in modo meno sibillino la Gilberte francese antropomorfizza la cultura; quella americana ne sente solo il fascino; il richiamo» (p. 141).
2- Molto meno frequentemente individuabile la fenomenologia subito dopo annunciata: «Un uso improprio della singola parola»; utile «a scardinare il senso letterale del discorso».
3- «Nessuno mai può essere molto sicuro che le cose di cui scriverà siano realmente accadute» (p. 172): «Questo e non altro è la vita. La linfa delle storie che ognuno di noi si racconta, come fosse un racconto» (p. 416).
4- «La fragilità di un racconto fondato su una figura evanescente di donna; una specie di mistilinguismo ... fatto di poche parole su di lei, può spiegare le circonvoluzioni che assume il pensiero del narratore combattuto tra la voglia di parlarne, di costruirne una solidità inespugnabile, e la mancanza di voglia. La leggerezza dell’essere ... è anche fatta di questo spaziare nel nulla con il puro proposito di starci bene: di non affaticare la mente alla logica del piegare la scrittura alla sua funzione primaria, come se il narrare la vita fosse la vita» (pp. 169­-70); «Solo dopo ci metterò i personaggi suggeriti sia dalla stessa scrittura sia dal progetto formulato all’inizio e cioè l’impianto di un grande romanzo» (p. 172).
5- Ed eccolo «girovagare nelle tundre alla scoperta delle tracce del proprio personaggio» (p. 358).
6- «C’è sempre un momento in cui la scrittura sopravanza il pensiero; ed è quando l’allitterazione o l’assonanza la fanno da padrone» (p. 81). «La mia narrazione a questo punto ha bisogno di recuperare una parte dell’eros, dopo essere rimasta impigliata dentro il mito e la leggenda» (p. 164): «Mentre procedevo per sintesi alla narrazione della storia immaginaria di una ragazza tipo – astraendola da un groviglio di fatti e persone ... mi rendevo conto del percorso altrettanto immaginario che stavo compiendo io stesso ... Il realismo giornalistico, il bozzettismo; la tecnica da flash back hanno a tal punto contaminato la scrittura letteraria da rendere strenua la lotta per la sopravvivenza dei grandi pensieri ... Riuscirci, sarà davvero un’impresa» (p. 193): «Distrassi la mia attenzione per scrivere le cose che ho appena detto» (p. 449).
7- «Per un narratore ... sorge il dovere di una scelta che potrebbe essere funzionale al racconto oppure no» (p. 166): «Se un narratore si lascia prendere dal filo del racconto finisce con l’impallinare i capitoli come fossero le perle di una collana ... Ne verrebbe fuori un monile dal quale sarebbe difficile togliere un frammento senza avere la sensazione della incompletezza dell’opera» (p. 229); «Nulla autorizza un autore a fare cattivo uso della propria fantasia» (p. 318).
8- “L’organicità di un’opera nasce dalle intenzioni. Il risultato soltanto dal caso” (p. 186): «La tentazione di scrivere una storia banale in qualche caso è così forte da costringere ad inventare situazioni a spirale dentro le quali infilare il lettore. Solo che non si sa mai cosa sia esattamente il banale né si percepisce in anticipo quale sia il momento in cui se ne sente prepotente l’attrazione» (p. 212): «Il divagare da un argomento all’altro è una tecnica narrativa già sperimentata ma sempre efficace: è divenuta ancora più attuale quando si è scoperto che la storia non procede per successioni cronologiche ma spazia dentro le cose più comuni» (p. 219): «La sovrapposizione delle figure, l’interscambiabilità delle parti tra il personaggio e il suo doppio (o il suo opposto) ...» (p. 355); «Da quando ho dovuto mettere da parte il cuore, ovverossia la scrittura fatta ansia di conquista del regno delle idee» (pp. 357-8); “L’economia del racconto vorrebbe...”; (p. 378)
9- «L’incubo... padrone della vita immaginativa tanto da asservirla al terrore del disordine mentale, cui non si riesce mai ad opporre la lucidità del pensiero logico-raziocinante» (234).

10-: “Lasciamo da parte Gilberte ed occupiamoci d’altro”; (p. 237); “Preferisco... affidarmi alla decodifica che vorrà fare ciascuno di voi” (p 358); “Quando sarete assillati dalla lettura di questo-testo” (p. 359).