Ignazio Apolloni  "Horcynus Orca", quell'omerico impasto di idiomi?





2Sarei tentato di fare una filippica, dire che la concezione che Stefano D’Arrigo aveva del mondo e delle cose che lo sottendono è il portato della cupezza, dell’aspirazione alla morte come liberazione dell’anima di cui è intrisa la cultura isolana. La dominazione delle coscienze – soggiogate dalle innumerevoli dominazioni straniere non ultima l’Inquisizione – ha assuefatto i siciliani al condizionamento delle idee e all’attesa della fine. Qui la libertà è intesa come privilegio dei pochi, l’obbedienza al potente come un dovere: e potente è Cristo quanto lo è stato Maometto. Le idee liberali, i principi enunciati dagli illuministi e fatti propri dalla rivoluzione francese, il pensiero cogente cartesiano non hanno ancora attecchito né sembra che li abbia tenuti presenti l’autore della mortifera previsione di una fine prossima assegnata al povero Ndrja. Una forma di catalessi dunque anticipata già nel fiore degli anni al marinaio-nocchiero di una nave non sua e al cui destino non potrà sottrarsi; una calata agli inferi né desiderata né voluta; effetto di una classicità greca portata ad esaltare il mito dell’eroismo fino al sacrificio di sé, all’annichilirsi di qualsiasi tensione emotiva suscettibile di trasformarsi in vita creativa. È dunque la rovina, il crollo degli imperi, l’archeologia che recupera le testimonianze della grandezza e non la loro nascita e floridezza a sostanziare il portato narrativo di Stefano D’Arrigo: e non è un caso se viene paragonata la sua opera all’epopea omerica mentre erronea appare l’assimilazione che si fa del suo poema con quello dantesco per la difformità del percorso. Non mira infatti certo alla beatificazione paradisiaca l’Horcynus; tutto è buio, tetro, persino fuligginoso (la fuliggine percepita come pericolo immanente nei caveau degli orrori predisposti nei circhi o nei luna park per fare provare scosse da incubi a chi non riesca a provarli di notte ed eufemisticamente ne sente la mancanza per realizzarsi). Né mancano note da campane suonate a morto tipiche della liturgia ecclesiale.
Si può parlare pertanto di monumento alla cristianità senza tema di sbagliare? Si può individuare nella possibile redenzione dal peccato, detto originario, l’opera di distruzione della gioia di vivere del D’Arrigo quale atto supremo di restitutio a chi ci avrebbe donato la vita? O non piuttosto è stata l’enfasi linguistica, l’impasto di idiomi tuttora presenti nel subconscio e nel cervelletto dei siciliani quale lascito delle dominazioni subite a fare da volano, a condurre verso l’inevitabile fine del viaggio quale anticipazione di un mondo migliore?
Non so se George Steiner abbia le medesime pulsioni di D’Arrigo ma non mi sorprenderei nel sapere che solo ora, nell’età avanzata e prossima alla fine, si sia convinto della grandezza, anzi la suprema, nel panorama letterario mondiale. Sono però portato a ritenere che la sua odierna adesione totale a quel poema gli sia nata dall’immersione totale e globale nella visione medievale del mondo che Dante ne aveva. Se avesse approfondito la rappresentazione ciclica del tempo espressa da Joyce nell’Ulisse non dubito che le sue certezze sarebbero state altre.
Ignazio Apolloni