Francesco Merlo  Vuesse Gaudio  Roberto Pellegrini  Violetta ● La malizia del riccio e il baccalà

Il pesce in Sicilia / LA MALIZIA DEL RICCIO

Il pescivendolo, coi piedi nudi e i muscoli nocchiuti, vendeva, nell’attesa, i branchi della seppia, da mangiare crudi uno dopo l’altro, come patate fritte, e alla fine regalava una manciata di cicireddu, minutaglia accettata senza gratitudine perché «u cicireddu pisci è?».Di crudo mangiavamo i gamberetti di nassa e i masculini — le alici — , piccoli, argentei, dissanguati. Non ci sono tartare né carpacci nella tradizione siciliana, ma pesci poveri da maltrattare in cucina come la cavagnola che da grande diventa ricciola, il capone e il pauro che è il dentice rosa («potenza della provvidenza…»), il sarago pizzuto, il tonno che costava poco e finiva stracotto nella cipuddata. Ma fosse pure cefalo, dentice o orata, il pesce era sempre arrusti e mangia, metafora dell’uomo che consuma tutto e subito quel che guadagna senza investimenti né salse, senza giochi di borsa né maionese, solo un ciuffo di ‘mauru, la verdura di mare che l’inquinamento ha fatto sparire. E si gustavano crudi il riccio e la cozza, slinguata platealmente perché il mare è un abisso di allusioni. Dunque il polipo, u puppu, è l’omosessuale. E nelle pescherie è tutto un annusare, al confine tra profumo e fetore, con lo stesso naso di Casanova che riconosceva all’olfatto le donne della sua vita: «Più forte era la traspirazione di quella che amavo più a me sembrava soave». Ed è così anche per la sarda e il baccalà, per il capone e per la zoccola, che è un magnifico crostaceo scuro, piccolo e brutto. «Nel fondo del mar / nel fondo del mar / la foca barbuta / sempre piaciuta» canta oggi Vinicio Capossela. Non sa quanti pesci in Sicilia danno nome all’amore: panda, passera, pauru pauru ca cricca, opa, balajola, bupa, bopa, pìchira pizzusa epìchira spinusa, specatrice, piscipoccu,balestra, runcu di papera, sangusu, sapuneddu, scannacavaddu, scannaiaddu, scazzububulu, paddottola, cadduffu, piscisceccu, scrofana, stummu cu un occhiu, taddarita, tenchia, tracina, tremula, umbra, vastunaca, lappara, fravagghia, ciaula, trunzu e mìnula che è la puttana più provocante: un gran pezzo di mìnula, appunto.E forse la malizia è il risarcimento del pesce nell’isola che aveva paura del mare e dunque fuggiva dalla costa e trasformava i marinai in braccianti e contadini, naviganti repressi, coltivatori di grano e agrumi. Perciò la cucina è di terra. L’estate sul mare è festa di ortaggi: caponata, peperonata, parmigiana. Anche la pasta con le sarde è più terra che mare, e sembra l’Etna la pasta con il nero della seppia, il suo bianco cappello di ricotta e la cima rossa di pomodoro. E il capitone è re del Natale solo perché ricorda la salsiccia, sale e ciccia. E lo stoccafisso, celebrato a Messina, è importato dalla Norvegia e cucinato alla genovese. Persino il pesce spada non è stanziale. Cosa ci rimane? La solita metafora. L’occhio di bue, per esempio, detto padella: «Allerta fimmini, ca passa u quadararu, scoprite le padelle e friggete u baccaluru».

6 thoughts on “Il pesce in Sicilia / LA MALIZIA DEL RICCIO

  1. Violetta
    Molto bella la Sua metafora pescivendola. Peccato che spesso io non la voglia aprezzare. I ricci però mi commuovono. Poveracci. Hanno il sangue freddo e stanno coperti d’aghi pungenti. Hanno bisogno di prossimità per togliersi quel freddo d’addosso, ma piu’ si avvicinano, piu’ si feriscono, quindi la loro malizia resta sempre a casa, como un’autoferita, il resto degli esseri vivi proccurano di non avvicinarsene, per sicurezza e comodità.
    Il mare sembra irreale e instabile come il teatro: uno spettacolo che trattiene un po’ e poi si lascia andare. Non si sopporta per troppo tempo quel fingere trafficante e caparbio delle onde, delle tempeste, delle meduse, del malore acqueo del pesce marcio. Della sabbia sporca dal petrolio delle navi scoraggiate in alto mare. E poi, passate le scene colorite e fluenti, il sipario della notte che cala e cancella l’orizzonte senza complimenti, senza applausi, nel silenzio rumoroso del vienivai, senza mereltti di schiuma griggia né spruzzi di sale ed allora non sai che cosa ti aspetta ad ogni passo. Il mare mi piace da lontano e per il giorno. Solo come paesaggio da sfondo. Come un decorato teatrale della natura. La vita reale, altrimenti, mi si avvicina nella solidità, nel tatto, negli angoli riposanti, nelle orme sulle pianure o sui sentieri di montagna. Tra gli alberi ed il cielo. Comunque , come la cucina sicilana, mi sento di appartenere alla terra mite, fresca e tiepida, silente e dolce, piuttosto che liquida, fredda e salata. Ed in piu’, o forse per quello, sono vegetariana! Un po’ traditrice, è vero, perchè ogni tanto non disprezzo un po’ di pesce al forno o al rosto. Mai fritto. Peccato, far finire le creature marine nell’olio bollente come fose l’inferno. Meglio la carezza veloce del caldo liscio e secco. Benché solo sia per il senso di una strana pietà zoologica. Solidale.

    1. Violetta
      Avviso per la gentile Margherita, caso mai lei leggesse questo minitesto; Involontariamente ho radoppiato la “g” di grigia. Mi dispiace. Ma ora è troppo tardi per correggere, Come capita spesso nella vita…peccato! E saluti per ella!
      1. Francesco MerloPost author
        La Sicilia, che è un’isola, diventa terragna per paura del mare che la circonda. Dunque il siciliano si svilisce in un terra arida e senza speranza. La storia della Sicilia ( e non solo) forza l’antropologia degli abitanti di un’isola avamposto che da naviganti si trasformano in rane di terra. Altra cosa è essere naturalmente di terra, come nella pianura padana, in Piemonte… (Paolo Conte quando, in preda a ‘un’idea come un’altra’, lascia la sua Italia di terra per andare nell’Italia di mare ha ‘la faccia un po’ così’, per ‘la paura che ci fa / quel mare scuro / che si muove anche di notte / non sta fermo mai’). Grazie. E non si perda nelle correzioni.
        1. Violetta
          I siciliani che conosco invece sono splendidi. Quella terra mi piace moltissimo. Non mi sono trovata così bene in nessun’altro posto dell’Italia. Amo la Sicilia, con tutte le sue virtù ed i suoi diffetti. È vecchia e saggia. E malgrado la sua stanchezza millenaria, continua ad essere bellissima. Se Lei – che s’identifica come nato a Catania- afferma che i siciliani sono rane di terra impaurite dal mare, sarà perchè lo sa benissimo dall’esperienza. E non sarò io ad affermare il contrario di uno sperto in quella materia da batraci. Ma quei siciliani meravigliosi che conosco di rane impaurite non ne hanno nulla. Saranno marziani ?La nota che parla sulla correzione non era per Lei, era per Margherita, una donna molto amabile e culta che da questo blog aiuta troppo alla cura del linguaggio scritto, scusimi Lei per rispondere da qui ad un’altro corrispondente, ma non ho un’altro modo di farlo. Comunque, grazie!
        1. vuesse gaudio
          IL BACCALA’
          Tragedia in una battuta
          di V.S.Gaudio
          Avrei voluto scrivere almeno un paio di “tragedie in due battute”, alla maniera di Achille Campanile. Ebbene,ho dovuto desister: sia le battute sull’isola Antigua e le altre su Mastella mi hanno fatto pensare, off shore, al “Dramma dell’oceano”, proprio una tragedia di Campanile, in cui i personaggi sono: IL BACCALA’ e NESSUN ALTRO. 
          La scena si svolge in mezzo all’Oceano, ai nostri giorni. Il mare è in tempesta. Ondate come montagne s’innalzano fino al cielo, in lontananza si vede una nave in pericolo. Marinai e passeggeri s’agitano invocando salvezza. 
          All’alzarsi del sipario, o quando va in onda in tv, IL BACCALA’ fa capolino fra le onde infuriate e fissa la scena, la telecamera, con sguardo perplesso.

          IL BACCALA’
          tra sé: Non arrivo a capire se la nave è in pericolo perché il mare è agitato o se il mare è agitato perché la nave è in pericolo.

          (Sipario)
          N.B. Avevo questa tragedia in archivio, è andata a “commento” in non so quale blog ai tempi dell’isola Antigua. Ora, tirato dentro tutto quel pesce per il La Vitola nel post di qualche giorno fa [ http://www.francescomerlo.it/?p=383 per cui una signora floreale invocava la proscrizione, e quindi l’off shore, per il sottoscritto(sic!), ecco che Merlo ci rimpinza lui stesso di pesci[per tacere delle metafore amorose, che, appunto, sembra che si colleghino all’altro mio commento contestato dalla signora floreale e che parlava di cornuti di prescrizione e di proscrizione, un semplice omaggio a Fourier, utopista del XVIII secolo, e a chi quel Falansterio sembra che lo abbia realizzato tra XX e XXI secolo), e pensare che avrei voluto postare un estratto(da un mio saggio linguistico] sulle alici, ma, francamente, sarebbe stato troppo salato!
          1. Roberto Pellegrini
            Leggo e mi colpisce questa pagina meravigliosamente strepitosa, tra quella tragedia trascendentale in una sola battuta e le elucubrazioni pesci-amatorie delle foche odoranti, diventa un caso, veramente. Un baccalà capace di porsi quei sillogismi profondissimi in mezzo alle tempeste d’attrezzatura operistica, e poi i personaggi eccezionali cioè quelle rane siciliane d’adozione, smarrite dalla paura, quelle alici-masculini troppo salate/i per essere mangiate/i all’improvviso , sembra di essere degna di quei testi goliardi del medioevo, come i Carmina Burana, dietro cui nomenclature sacre si nascondevano irriverenti smorfie mentali, pernacchie bigotte, beffe e blasfemie eppure la disperazione di una infuocata genialità da quartiere marginale, ovviamente incompresa. Mai capita dalla lorda sensibilità borghese. Traboccante. Barocca. Persa e sepolta prematuramente nel cimitero della dimenticanza insieme al non-senso e forse al troppo sesso. Come quei pesci e pesce lascivi/e che prima o poi finiscono nelle padelle femminili la cui leggenda canta Merlo -come quel passero potrebbe fare un ’altro se non cantare?- .
            Come metafora teatrale surrealistica,questa esibizione allucinante diventa molto bella. Nel divano del psichiatra potrebbe diventare un’altra cosa, forse non così lieta e divertente.
            Per fortuna il teatro e l’arte in genere, esercitano spesso la virtù, coprendo lo squilibrio umano sotto il cappotto misericordioso della generosità.
            Comunque grazie, Merlo e V.Gaudio, per il rinfresco estivo.