 La Voce Einaudi





La Voce della centralinista Einaudi
1. La voce e la pioggia
La voce è sentita come un’unità, come la pioggia prima che essa cada. “Quando le nuvole s’avvicinano e coprono il cielo, scende l’oscurità; prima della pioggia tutto diviene grigio”. La voce, è così che la vedono gli uomini, cade in molte gocce, e in tutte le lingue si dice che la pioggia cade. Gli uomini vedono la voce in molte linee parallele; come la pioggia nulla cade così spesso e così copiosamente come la pioggia, se si esclude in qualche isola. La voce, questo pensavo allora negli anni settanta a Torino, si odono le sue gocce rimbalzare, ed è un piacevole rumore. Si sentono sulla pelle, ed è una piacevole sensazione. “Forse non è trascurabile che almeno tre sensi partecipino dell’esperienza della pioggia: la vista, l’udito, il tatto” questo scrive Elias Canetti. Tutti questi sensi percepiscono la pioggia e la voce come molteplicità. Ed è facile ripararsi da essa, e con essa. La voce di rado è veramente minacciosa, nella maggior parte dei casi, circonda, avvolge l’uomo in modo benefico. C’erano dei poeti che in quegli anni Settanta amavano il parallelismo delle righe di pioggia, il rumore identico, la stessa sensazione di umidità che ciascuna goccia provoca sulla pelle, tutto, allora, tendeva nel loro orecchio a sottolineare l’eguaglianza delle gocce: per questo telefonavano alla Einaudi.  “Einaudi” rispondeva la centralinista, mentre il gettone, con l’intensità della goccia che cade in una pozza d’acqua, faceva eco alla sua voce, e raddoppiava la massa nell’istante della scarica, e della massa, al tempo stesso, ne avviava il dissolvimento.
La sua voce, quella grana liquida, con le nuvole dentro e le gocce che cadono perché non possono più restare insieme, e non si sa se e come torneranno a radunarsi, sempre che tu, specialmente se non eri a Torino, avevi la scorta di altri gettoni telefonici.
 
2. La voce e la sabbia
Gli uomini, che hanno sopra ? La foresta, diceva Canetti. “Essa può essere chiusa e intrecciata ad ogni sorta di sterpaglia; può costare fatica penetrarvi, ancor più fatica uscirne.” Tuttavia, i poeti, come gli uomini nella foresta, amano guardare in alto, per questo si dice che facciano raccoglimento, e sentire che la sabbia che c’è nella voce “Einaudi” perdura come la forma del mare e può sollevarsi in nuvole, la sabbia è composta di innumerevoli particelle uguali. La sabbia – che c’è nella voce – affoga l’uomo come il mare, ma in modo più perfido, più lentamente, e come il mare ha lo stesso mistero nel contenuto. I poeti temono le cavallette ma non la sabbia, per questo ogni mattina ficcano un gettone nella gettoniera e chiamano la voce “Einaudi”. Per il semplice fatto che – Canetti è questo che scrisse – è sorprendente che la sabbia possa sempre divenire simbolo della posterità. “Questo fatto, ben noto dalla Bibbia, dimostra d’altronde quanto sia forte il desiderio di moltiplicarsi senza limite”. La più grande, sterminata, incalcolabile massa che l’uomo conosca è quella della sabbia, che, come le cavallette e la posterità, possiede numero, coesione, inscindibile unitarietà. Intanto che ci sono le stelle nel cielo di Torino e la pioggia, che questo fa  la voce “Einaudi”, tu la chiami e sembra che non sparisca mai, anche perché l’analemma esponenziale dell’oggetto a chiamato voce non smetterà mai di passare al meridiano del poeta, anche quando è dentro il vento e la voce è allora che pare che muti di più e, come il vento, si fa invisibile e l’esemplare unico del podice sabaudo-ebraico, che il poeta tocca al mercato della Crocetta, non è detto che abbia l’unità discendente e bagnata della voce “Einaudi”.

3. La voce e l’oggetto a
La voce non è dolce, non è mobile, armonica, non è carezzevole, né vellutata, non è languida, la voce, ho dentro il mio oggetto a, quello chiamato voce, c’è una voce squillante o penetrante, così alta, così tesa, per niente debole o bassa né pacata o spenta, e ascoltandola rivedo le gambe e il corpo di Françoise Hardy, e la sua voce, che non so quanto fosse dentro il vento e non aveva la sabbia e la pioggia della voce “Einaudi”, cammina dentro la mia anima, passa al mio meridiano, ha l’intensità, il tono, il timbro, l’accento, che il mio oggetto a, quello chiamato voce, deve avere.
La voce, fosse anche stonata, se sento quella voce, e non è la voce “Einaudi”, ascoltandola è come se fosse il doppio della voce LaRoux, che ha lo stereofonico senza che per questo debba avere l’armonia mista o plagale, o piuttosto è quella imperfetta, sospesa, evitata, un po’ dentro la dissonanza che mi entra nell’orecchio dà il ritmo, la misura giusta, al mio (-j), che, poi, è quello di LaRoux.
La voce, anche dentro i movimenti della musica del largo e del prestissimo o nell’intensità tra il forte e il fortissimo, la voce, che non è a mezza voce, o sotto voce, di FlorenceWelch , che forse ha dentro la mobilità delle masse d’acqua del fiume, la massa che presenta se stessa, come il fiume ha una pelle che vuole essere vista.

4. La voce e i mucchi di pietre
La voce “Einaudi” non era niente di tutto questo, per questo – così disse un mio amico poeta che stava in Einaudi per la Letteratura Anglo-americana – i poeti, e anche gli storici e i sociologi e altri filosofi, o linguisti del visibilio contestuale o dell’istituzione, per non parlare dei traduttori, mettono il gettone nella gettoniera e alla voce “Einaudi”, la foresta è sopra gli uomini, e sopra i poeti e assimilati  è la pioggia e la sabbia, e mai mi ha sorpreso il vento – e la sua forza che muta con la sua voce – sotto i portici di Torino anche fuori dalla cabina telefonica, invisibile è il vento ed è questo spirito che deve essere visto da chi sta telefonando in Einaudi e la sabbia della sua voce forma con la pioggia onde come il mare e si solleva in nuvole, e il poeta rivede – in quella fotografia sottratta alla posterità dalla sua mansarda insieme al libro sugli zingari e a quello della Felicitas di Testori – la famosa traduttrice di Emily Dickinson sulla spiaggia di Rimini d’inverno in uno di quei terribili anni di piombo in cui anche la voce – quella voce “Einaudi” – aveva, di eterno, la pesantezza e l’immobilità del mucchio di pietre. I poeti – quei poeti e assimilati – che telefonavano in Einaudi per la voce (della centralinista) Einaudi che, adesso, come voce , non c’è più, si sono eretti, e torneranno a farlo, come mucchi di pietre.
5. La voce e l’orecchio


Ciò che entra dall’orecchio con il (-j) del fallo ma anche con le altre forme di a, che, allo stadio anale, non è più il seno o il capezzolo ma che, poi, una volta che si è tra l’uretrale e il fallico, cosa potrà mai farsi questo a à , dove a essendo la causa dell’ambivalenza, una volta che il desiderabile è la centralinista  dell’Einaudi, o l’Angelus Einaudi stesso, avendo tutti questi cattivi pensieri nella città sabauda e 






Questa non è Silvia Crocetti al mercato della Crocetta: 
è, non ci crederete, Aurélia Steiner di Torino al mercato della Crocetta.

dell’ esemplare ebraico-torinese del podice alla Crocetta, ovviamente il soggetto [stavo scrivendo: il cicalino o il ronzio, stiamo parlando di orecchio e voce] ce li segnala ma non è nel quadro (-j) che li ficca o li deposita, al quinto ripiano tra voce, a e  desiderio dell’Altro, anche perché non era del tutto sicuro che, non avendola ancora vista nel topos stesso dell’Einaudi, la centralinista fosse davvero un corpo, difatti ogni poeta – che di solito compila ed enumera infinite cazzate per ogni ciuccio che vede in volo – crede che a sia l’Altro e che, avendo a che fare con a, abbia a che fare con l’Altro, con il grande Altro, che è la Madre di solito ma qui è Einaudi come casa editrice, cioè la Madonna e quindi l’orecchio. La verità è che – è questo che mi inquietava in piazza Solferino in quegli anni così soffiabili – quello che c’era nel non è senza averlo era, è, il rapporto del soggetto con il fallo, a condizione di prenderlo al livello maiuscolo Q, che è al quarto livello, quello scopico, che si fa vedere. E allora pensate che sia stato facile quando il mio amico redattore per la Letteratura Anglo-americana e poeta egli stesso elevato e maiuscolo, mi portò – senza dir niente sul suo proposito – al centralino e: “Ecco – questo disse – in apparenza avrebbe dovuto esserci il romanzo e la storia, la poesia e la psicoanalisi di Lacan o l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, c’è qui la voce…”! E fu allora che la linea diagonale, che comincia con l’inibizione e finisce con l’angoscia, che, poi, per farsi losanga, si sa cosa si fa intervenire dall’alto in basso in tutto lo spettro della sessualità, che stringe il non è senza averlo che, avendolo visto così somatizzato, allora è il fallo a essere in causa [che non è il fallo reale per quanto fosse savoiardo e nella casa editrice del figlio del presidente della Repubblica, e il suo modo ordinario di apparizione è di apparire sotto forma di due falli (uno per il reale, l’altro per la repubblica?)]. Se lo si vede, o li si vede?, angoscia! Così, lo diceva, a dire di Lacan, anche Edmund Jones, il senza che è al livello scopico, ma di fronte, appare, specularmente, al livello anale, sotto forma di due falli, la voce “Einaudi”. In quel pomeriggio di pioggia, intanto che l’arco cavo della sessualità va dall’anale all’ideale, il fantasma che fa(ceva)? E(ra) nella statica assoluta del soffio nell’orecchio, l’iperdulia della voce che traccia la domanda dell’Altro. La voce, questo non ve lo dico, per l’aphanisis di a , la scomparsa dell’oggetto in quanto struttura un certo livello di fantasma, aveva allora questo in più, la traccia cancellata del fantasma, o il doppio bordo delle mule irlandesi di “Roma senza papa” di Guido Morselli
La mula, la Madonna, la Einaudi stessa, iperduliche come sono,  sono per forza dure d’orecchio, perché possano far udire quel che c’è nel campo dell’occhio avrei dovuto almeno presentarvi un’immagine bagnata del doppio bordo della voce, che, per quanto possa produrre- ve l’assicuro-  un inquietante Heimlich, non avendo la centralinista uno stadio dello specchio e perciò essendo (priva e) privata del narcisismo, traccia di quel qualcosa che va dall’esistenza di a al suo passaggio nella storia, la voce data in un corpo o in un’immagine, avendo finalmente uno dei Cento Nomi-della-Madre, avrebbe permesso il superamento definitivo dell’angoscia. E, conseguentemente, essendo stata l’angoscia nominata nel nome dell’Altro, il poeta , che ha conosciuto la voce,  sarebbe rimasto senza voce. Almeno per l’Einaudi.
6. La voce e il popolo che continua da tanto tempo a vagare
Per il fatto che  ci siano il mare e la sabbia nella voce “Einaudi”, e conseguentemente la pioggia e il vento, il mare che è sempre inglese perché è il mio amico redattore in letteratura inglese che mi porta sul mare, il mare di quella voce, come un inglese che va a prendersi le sue catastrofi, e tutt’intorno e sotto di noi il mare e la voce, che, nella posterità della discendenza numerosa che non è solo quella simboleggiata dalle cavallette ma è quella della sabbia, è il popolo che continua da tanto tempo a vagare: una massa nuda che di anno in anno si trascina attraverso il deserto, come la voce che si prolunga nel tempo e nella massa per quarant’anni, un intero popolo che si trascina attraverso la sabbia e la voce, come se fosse l’esodo dall’Egitto.
          "Wordle: la voce einaudi"Wordle: la voce einaudi

Tra voce e orecchio, l’afflato del proferire “Einaudi” è dall’anale all’ideale che, nell’ombra così densa dell’andatura (-j), traccia tra angoscia e potenza dell’Altro i cattivi pensieri del poeta: se negli Upanishad viene precisato che, con il termine Apana, si intende il vento del didietro di Brahma che genera in particolare la specie umana, come non sentire in questa voce la sabbia e il mare di un popolo che sembra non lasciare traccia per come la sua Herkunft sia eternamente perduta ma che in ogni dove, dove approda, non sparisce mai?
by v.s.gaudio