Alessandro Gaudio ■ Nessuno e William Blake


 Alessandro Gaudio
Nessuno, due allotropi e una precaria allegoria



Il nome del singolarissimo indiano di Dead Man, lungometraggio del 1995 del regista americano indipendente Jim Jarmusch (che prima del ’95 ha già firmato, tra gli altri, film come Coffee and Cigarettes, Down by Law e Mystery Train), è Nessuno. La funzione principale di quest’indiano, educato in Inghilterra e dotato di un carattere complesso e nevrotico, è guidare uno spaesato contabile di Cleveland, chiamato William Blake, attraverso un West visionario e popolato di iperboli visive e tematiche allucinanti, quasi psichedeliche. L’indiano àncora questo calembour alle sue massime che, con paterna perseveranza, continua a propinare al recalcitrante William. «L’aquila non perse mai tanto tempo come quando si lasciò insegnare dal corvo» e «Non si possono fermare le nuvole, costruendo una barca» sono solo alcune delle espressioni proverbiali che l’indiano alterna e confonde con i Proverbs of Hell e con altre locuzioni tratte da The Marriage of Heaven and Hell, scritto nel 1790 dal poeta inglese Blake. Ciò che Nessuno dice sembra fungere da didascalia alle immagini deliranti (colte, in prevalenza, dal punto di vista di William) di questa micro-epopea che descrive il progressivo ricongiungimento dell’«uomo morto» (ancora William Blake) con lo spirito dell’omonimo poeta e prospetta, in questo modo, una rigenerazione, una «nuova nascita».
Blake fu anche pittore e incisore e, da autodidatta, disponeva di un incrollabile interesse per la ricerca di quelle forme non convenzionali di cultura che gli consentissero di mettere in questione la condizione sociale dell’uomo. Le sue poesie, spesso originate da una sorta di misticismo del quotidiano, trovano la loro significazione più piena se accostate alle sue opere figurative o alle illustrazioni pensate per esse, così come le sequenze di Dead Man meglio raccontano se affiancate alle massime di Nessuno. È affascinante osservare come la concezione della realtà del poeta pre-romantico, basata sulla ricostruzione dei tipi e delle idee eterne partendo dalle cose di tutti i giorni («vedere un Mondo in un granello di sabbia / e un Paradiso in un Fiore Selvatico, / tenere l’Infinito nel palmo della mano / e l’Eternità in un’ora», recitano alcuni famosi versi di Blake), riecheggi nell’impostazione del film di Jarmusch: si perviene a una ricostruzione dell’essenza del mondo che, attraverso il processo critico di demitizzazione (fatto di innocenza e di esperienza) attuato dall’attività immaginativa, prende le mosse dalla visione dell’infinitamente piccolo, dal dubbio, dall’esperimento e dal desiderio di trasformazione che consentono tanto al poeta quanto al regista di drammatizzare (o, che è lo stesso, di riconsiderare) i problemi evocati dalle loro opere.[1]
Dead Man, in sostanza, è il viaggio che William e Nessuno compiono attraverso un West popolato di figure mitiche e stereotipate e segnato da avvenimenti surreali e macabri.[2] William, senza lavoro, fugge attraverso un universo a lui sconosciuto (la tragedia senza fine dell’esistenza), inseguito da temibili e spietati cacciatori di taglie. Intimorito, in un primo momento, dalle esagerazioni visive che gli sbarrano il cammino, trova in Nessuno – «Colui che parla ad alta voce senza dir niente» è il suo nome indiano – una guida infallibile che, con il passare del tempo, finisce per regolare il suo sistema di attese, secondo un codice di valori fatto di principî senza tempo che, di volta in volta, imparerà ad adattare a ciò che vive. Non si tratta, dunque, di una mitologia bianca che decreta una dimensione neutra e astorica, bensì di una elaborazione razionale dell’immaginazione che, partendo dall’infinitamente piccolo, ricava, antropologicamente e ipnoticamente (che, nella prospettiva intellettuale adottata da Blake, equivale a dire criticamente), un nuovo stadio del reale.
In un primo momento, William è scettico riguardo al potere conoscitivo e visionario (più che previsionale) di Nessuno. Man mano che il viaggio dei due prosegue, tuttavia, egli sembra accettare istintivamente gli insegnamenti dell’indiano che, così, finiscono per orientare la sua stessa percezione. L’universo idiomatico di Nessuno diventa la chiave di volta per rendere le visioni di William agibili o, che è la medesima cosa, verificabili logicamente. Con il passare del tempo, Blake è sempre più consapevole che è quella imposta da Nessuno la sola significazione attendibile, la sola in grado di annunciare la verità. Gli oracoli dell’indiano aggiungono o tolgono qualcosa all’ordine esausto del reale: non si limitano semplicemente a restituirne gli aspetti più evidenti; hanno la capacità di rivelare l’orientamento timico di un simbolo o il valore preparatorio di una data azione, indicando, con processi reiterati, maniacali e deliranti, una dimensione che, da surreale, diventa gradatamente l’unica possibile.
Le appoggiature di Nessuno anticipano e sanzionano tutte le azioni di William Blake e sono volte a favorire il ricongiungimento con lo spirito del suo allotropo temporale. Il luogo in cui il contabile di Cleveland acquisisce le competenze necessarie al compimento del suo viaggio è quello in cui vagano, pronte a essere carpite, le massime di Nessuno: lo si chiamerà spazio paratopico. In conformità con ciò che William conquista in tale luogo di lotta, seguono le performances (spesso violente) orientate all’interno di una estensione utopica. Le massime dell’indiano sono il preludio del passaggio da uno spazio all’altro, da un intervallo temporale e comportamentale a un altro: nell’insieme costituiscono lo spazio topico della narrazione, quello all’interno del quale si preparano le trasformazioni da uno stato a un altro. Si tratta di variazioni puramente illusorie se prese in sé: ma di fatto, favorendo il ricongiungimento tra l’anima e il corpo del poeta e svolgendosi in uno spazio monocromatico, allestiscono una sorta di contro-spazio, un luogo reale – dice Foucault – ma fuori da tutti i luoghi.[3] Un piccolo luogo di lotta mentale all’interno del quale è possibile scorgere la complessità della visione.
Da un punto di vista cineastico, a sanzionare gli intervalli tra gli spazi nonché una certa essenzialità narrativa, intervengono quegli iàti spazio-temporali costituiti dalle dissolvenze su nero:[4] tali spaziature (spesso impiegate da Jarmusch per sottolineare il carattere soggettivo della figurazione) suggeriscono un orientamento diacronico, una continuità che sembra contraddire il tempo azzerato, il circolo del destino predisposto da Jarmusch. Si tratta di uno spazio topico dal quale William si allontana definitivamente disteso sulla sua canoa, nella sequenza finale del film. La morte per William è il vero spazio eterotopico, il cui raggiungimento sancisce la conclusione della sua fuga, la fine di quel viaggio predisposto e costellato dai consigli dello strano indiano e portato a compimento mediante un’azione immaginativa (e dunque intellettuale, se non poetica) costante sulla realtà. Le parole di Nessuno, con la loro ambiguità e la loro allusività, rimandano a una sapienza anteriore. Questa si manifesterebbe al profeta mancato (William Blake) attraverso le frasi del divinatore (Nessuno). L’indiano è il mezzo di una violenza differita, luogo in cui una sfera oltre-umana (ma ancora terrena) entra in comunicazione con quella propriamente umana. Il carattere differito (e dunque malvagio, immorale) della divinazione indurrebbe a decretare una distanza tra la sfera divina e quella umana: William, in quanto profeta, cerca di interpretarne il significato che, pur essendo spesso ordinario, mantiene un ché di angoscioso, perché eterno e assoluto. L’evolversi della narrazione prescinde dallo scioglimento degli enigmi o dalla loro mancata risoluzione: la tracotanza tutta indiana del logos di Nessuno decreta una fine che non può essere evitata in alcun modo da William Blake. È appena il caso di notare come questa struttura unica e complessa dio-divinatore ricordi quella costituita da Apollo (inteso come un dio malvagio che non vuole che l’uomo comprenda) e la Pizia (la farneticante invasata dell’oracolo delfico):[5] essa trova una condensazione parziale, temporanea e, allo stesso tempo escatologica, nell’uomo dell’immaginazione, nel genio poetico, nell’umanissimo dio-poeta paventato da Blake e ripreso da Jarmusch.
Questi, è bene ricordarlo, è studioso di surrealismo (in particolare, dell’opera di André Breton), nonché cultore e scrittore di letteratura beat: da ciò nasce quella estensione particolare della realtà che, all’interno dei suoi film, egli riesce a creare unendo e confondendo elementi tratti dal quotidiano e vedute e correlazioni puramente filmiche. Down by Law, Night on Earth e, ovviamente, Dead Man sono buone esemplificazioni del modo in cui Jarmusch sia in grado di giocare linguisticamente con le immagini di cui dispone: spiegano la maniera in cui egli si diverte a rovesciare o a riposizionare il cliché letterario e cinematografico che ha appena evocato. Anche in Ghost Dog, film del 1999, è facile scorgere un’organizzazione logico-strutturale simile a quella riscontrata in Dead Man: il racconto e le immagini sono un residuo fantasmatico della visione di un unico soggetto, la cui distorsione (o rivisitazione) agisce (linguisticamente) sull’impianto e la distribuzione dei vari episodi e (letterariamente) sull’allestimento visivo e le suggestioni tematiche delle singole sequenze.
Tornando al film del ’95, al di là della determinante funzione di appoggiatura esercitata da Nessuno, risultano rilevanti all’interno del film i due problemi onomastici cui si è fatto riferimento all’interno di questo scritto e che riassumo qui, cercando di considerarne, in conclusione, le rispondenze filosofiche. Il primo riguarda ovviamente il nome dell’indiano: nonostante la componente semantica dell’appellativo sia insolita, Nessuno mantiene la normale funzione di rimando del nome a un corpo sradicato, ma essenziale e dotato di un tempo evolutivo. La sensazione di straniamento che si produce nel chiamare qualcuno con questo nome costituisce l’ennesimo tassello nello scenario paranoico-demenziale di Jarmusch. Il secondo problema è costituito dall’omonimia che lega il nome del contabile a quello del poeta visionario William Blake. L’accostamento a livello discorsivo di due figure denominate allo stesso modo ne fa quasi due allotropi della stessa persona distanziati temporalmente. Questa connessione tra momenti diversi di una stessa ontogenesi è sancita proprio da Nessuno (che a sua volta rimanda al dio nascosto, al dio morto, al Nobodaddy di Blake) che scorterà William fino al ricongiungimento con lo spirito del poeta. L’«uomo morto» – la cui volontà d’esserci (o coscienza di sé) si condensa in quella che si rivelerà ben più di un’armatura vuota – porterà a termine il suo viaggio, disteso su una canoa coperta di rami di cedro e salutato come se fosse un essere che non fa più parte (o, più propriamente, che non ha mai fatto parte) del West descritto da Jarmusch o le cui azioni sono ascrivibili esclusivamente a un contesto idiomatico (o poetico) a-temporale. William, dal canto suo, cerca una prova tangibile del proprio essere, e la troverà all’interno della dimensione nominale ma essenziale, concreta e, nello stesso tempo, astratta e letteraria, messa in piedi con l’aiuto dell’indiano Nessuno.
Tuttavia, il suo apparente fallimento (che, in definitiva, è invece un’agognata acquisizione sul piano ontologico e cognitivo) porta ancora una volta allo scoperto il problema della mitologizzazione della vita, la riduzione del disordine della vita all’ordine del mito (o alla sua letteratura, che è il luogo comune o il cliché). Il film può leggersi, insomma, come un canto del cigno dell’allegoria e del feticcio e di quell’ordine retorico che essi implicano: Nessuno prova, con ironia e serietà, a designare in William Blake lo scatto eterotopico, soggettivo e visionario della forma allegorica che deve misurarsi con le cose materiali perché, a quanto pare, non possono essere tralasciate. La dimensione mitologica di riferimento (quella indiana e americana, quella del West e del western, dei bounty killer, del poeta scomparso, ecc.) deve fare i conti con un processo costante di formazione che passa attraverso il corpo e l’esperienza e che non può prescindere dal mantenere un rapporto costante con la realtà quotidiana, pur entrando costantemente in relazione con l’altrove e con il possibile: è per questo che sia Nessuno sia William Blake superano la sfera arcaica e astratta del mito e dell’allegoria e si conficcano invece, tanto con le loro azioni quanto con le loro parole, nella consistenza infernale e fuorilegge, e colorata seppure informe, della loro vita, colta sempre nella sua penultimità;[6] vale a dire nel suo costituirsi come sistema autopoietico che si mantiene con i suoi stessi mezzi e allestisce un personale ordinamento della realtà, ma che ritorna costantemente ad essa (alla sua vera indeterminata consistenza e non alla sua visione meccanica o statica), perché è frutto tanto dell’emergenza di una serie infinita di correlazioni e retroazioni tra i soggetti (generati sul legame indissolubile di spirito e corpo, di passione e ragione, di desiderio e moderazione) e di interazioni tra questi e gli oggetti, quanto della complementarità e della simmetria tra le parole (di Nessuno), i versi e le opere figurative (del Blake poeta, incisore e illustratore) e la visione critica dell’«uomo morto». Ne scaturisce, infine, un’allegoria costantemente rinnovata che, proprio perché continuamente annullata e rinegoziata (sia sul piano paradigmatico sia sul versante sintagmatico) dalla percezione e dalla ricognizione visionaria di William, sancisce una volta per tutte la precarietà e, quindi, l’opportunità del proprio punto di vista.



[1] Sull’opera poetica di William Blake si veda M. Praz, Storia della letteratura inglese [1937], Firenze, Sansoni, 2007, pp. 413-415; ma anche l’utilissimo G. Franci, R. Mangaroni, Blake: la lotta mentale, in «Per la critica», n. 3, luglio-settembre 1973, pp. 29-43.
[2] Dead Man stravolge, di fatto, le marche di identificazione del film western, genere fortemente codificato nel cinema hollywoodiano.
[3] Cfr. M. Foucault, Le eterotopie [1966], in Id., Utopie Eterotopie, trad. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2008, p. 13.
[4] Le dissolvenze, a loro volta, si accordano alle svisate della chitarra di Neil Young (compositore delle musiche del film). La chitarra accompagna anche quei picchi emotivi, costituiti dalle sequenze più crude (il cacciatore di taglie che schiaccia la testa dello sceriffo o che rosicchia – con soddisfazione – la mano del suo collega) o quelle dotate di un’accentuata valenza simbolica o mitologica. Sull’argomento cfr. U. Mosca, Jim Jarmusch, Milano, Il Castoro, 2000, p. 105.
[5] Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia [1975], Milano, Adelphi, 1996, p. 20.
[6] Per una definizione dell’area semantica del termine, cfr. G. Deleuze, L’esausto [1992], trad. di G. Bompiani, Napoli, Cronopio, 2005, p. 15 e passim.

Nessuno, due allotropi e una precaria allegoria
è stato pubblicato in: "Zeta" n.90, Campanotto editore, 
Udine settembre 2009.