• L' HOMEROTOPIA


œ v.s. gaudio

L’Homerotopia
Homer & Langley di E.L. Doctorow



   La cosa che più mi turba del “Diario” di Witold Gombrowicz, mi riferisco al volume I (1953-1958)[1], è che non viene indicata alcuna data, escluso l’anno e il nome dei giorni della settimana, lunedì, martedì, giovedì, venerdì, etc.
Per esempio, comincia il 1955: la prima pagina ha in alto il numero XIV e sotto a sinistra: Sabato; poi c’è XV e Domenica; infine a XVI e a Lunedì abbiamo una annotazione in cui si apprende che “In questo preciso momento arriva l’anno nuovo, il 1955”. Manca, è ovvio, il calendario.
Nella cucina di Cinoc[2], invece, ci sono quattro calendari delle poste con foto in quadricromia:
1972: I Piccoli Amici: un’orchestra jazz composta di marmocchi e il pianista, con gli occhiali e quell’aria di estrema serietà, ricorda un po’ Schroeder, il giovane prodigio beethoveniano dei Peanuts di Schultz;
1973: Immagini d’Estate;
1974: Notte nella Pampa: tre gauchos che schitarrano intorno a un fuoco;
1975: Pompon e Fifi: una coppia di scimmie gioca a domino. La femmina fuma un sigaro che tiene tra pollice e indice del piede destro.
A casa di Homer, il fratello cieco, una chioma alla Franz Liszt, e di Langley Collyer, che quando “partì per la guerra, i miei genitori lo salutarono con una cena in suo onore, una cena in famiglia”[3], durante tutta la loro vita, in cui la vista deduttiva di Homer si integrava con il principale progetto di Langley, la raccolta dei giornali allo scopo ultimo di creare un numero unico ed eterno che andasse bene per qualsiasi giorno[4], e la sua Teoria dei Rimpiazzi, non appare mai un calendario.


Le immagini delle cose
Se non appare mai un calendario, “le immagini delle cose non sono le cose stesse” (H&L, p. 215), le macchine da scrivere, il tavolo, la sedia possiedono la sicurezza di un mondo solido, dove gli oggetti occupano uno spazio, dove non esiste il vuoto sconfinato del pensiero inconsistente che non porta ad altro che a se stesso.
“Non resta altro che il contatto con la mano di mio fratello a dirmi che non sono solo”(H&L, p. 215), scrive Homer.
Non potrebbe mai scrivere, Homer, che: “La camera di Cinoc; una camera alquanto sporca, che dà un po’ sul muffito, un parquet pieno di macchie, i muri tutti scrostati. Sullo stipite della porta è appesa una mezuza, quel talismano da appartamento ornato di tre lettere contenente versetti della Torah. Contro la parete di fondo, sopra un divano letto coperto da una stoffa stampata a fronde triangolari, dei libri rilegati o n brossura sono appoggiati obliqui uno contro l’altro su una piccola mensola e, accanto alla finestrella aperta, si trova un leggìo a gamba lunga di costruzione leggera che ha, davanti, un tappetino di feltro largo quel tanto da permettere a una persona di starci in piedi. Vicino alla mensola, a destra, c’è sulla parete un’incisione tutta tarlata, intitolata la Calebute: mostra cinque bambinetti nudi che fanno le capriole, accompagnata dalla seguente sestina:

A voir leurs soubresauts bouffons
Qui ne diroit que ces Poupons
Auroient bon besoin d’Ellebore:
Leur corps est pourtant bien dressé
Si, selon que dit Pytagore,
L’homme est un arbre renversé[5]?

Homer, in verità, a differenza di Gombrowicz, non sa nemmeno che giorno è oggi: non c’è lunedì o domenica, al limite arriva il terzo giorno, il mattino del quarto giorno, quando conta i giorni della presenza in casa del loro amico gangster Vincent; quando non c’è il calendario, c’è comunque sempre l’orologio a muro (“ascoltai il ticchettio dell’orologio della cucina”: H&L, p. 131), anche per lui ci sono le stagioni, l’estate in cui i genitori li portarono i fratelli in vacanza in una specie di comunità religiosa in riva a un lago, da qualche parte nel nord dello Stato; i primi giorni d’autunno in cui “ faceva ancora abbastanza caldo e così, per festeggiare la nostra liberazione, andammo a sederci su una panchina dall’altra parte della strada, sotto i rami del vecchio albero che sporgeva oltre il muro del parco” (H&L, p. 134 ).

La musica, un solco nella libido di Homer
Il giornale unico che Langley sta progettando è speculare all’assenza del calendario, il tempo non è più formalizzabile se la pulsione scopica è ciò che entra dall’orecchio.
L’oggetto a di Homer è come la voce che sente il desiderio dell’Altro e che, se non può essere seguito come vorrebbe Baudrillard, è del tutto privo di Super-io, tanto che Homer, giacché non li vede, non potrebbe mai avere i cattivi pensieri che abbiamo nei confronti dell’Altro, quando l’angoscia(-φ) sale al livello dello stadio fallico.
Tra voce e orecchio, che sia Liszt o un po’ Schroeder, l’afflato di Mary Riordan o di Jacqueline Roux è dall’anale all’ideale che traccia, tra angoscia e potenza dell’altro, un solco nella libido di Homer che, non vedendolo, non potrà mai averlo nell’eterotopia dell’esclusione dell’Altro che è la sua casa e in cui sta vagando.
È questo che dice Homer a Jacqueline: “Forse nel suo francese c’è musica, e così lei crede che tutte le lingue siano musicali. Io non sento alcuna musica quando parlo” (H&L, p. 210); nel senso che non è vero che “la mia casa è un’attrazione più grande dell’Empire State Building”.

L’oggetto a com’è che entra in casa?
Fosse stato così, non avendola mai vista, e, adesso, non potendola nemmeno più sentire, e il mondo era cecità e sordità, il sesso non esiste, sente battere il suo cuore, ricorda le sue lacrime, ricorda di averla stretta fra le braccia, ma a Dio, Homer, non può perdonargli la mancanza di significato, perché, se non c’è il calendario, dimmi tu se nel “manicomio” che è casa Collyer dov’è che si trova lo specchio, che, essendo stato l’occhio,è quello che organizza il mondo in spazio: l’occhio che vede nello specchio “il riflesso del mondo che esso stesso ha in sé. Per dirla tutta, non servono due specchi contrapposti perché siano create le riflessioni all’infinito del palazzo degli specchi. Basta l’occhio e uno specchio perché si produca un dispiegamento infinito di immagini che si riflettono a vicenda”[6]: non essendoci né l’occhio né uno specchio né, tantomeno, un calendario, l’oggetto a nel rapporto con il desiderio com’è e quand’è che entra in casa?
Insomma, Mary Riordan, Lissy, Jacqueline Roux, quando le guardava, Homer, vedeva l’espressione assolutamente stupefacente per il fatto che era impossibile leggervi se esse erano tutte per lui o tutte rivolte all’interno?
“Mi ha permesso di toglierle gli occhiali. E poi i brividi di riconoscimento mentre ci sdraiamo sul letto. Quella donna che conoscevo appena. Chi eravamo? Il mondo era cecità e sordità, non esisteva niente al di fuori di noi. Non ricordo il sesso… Ho sentito battere il suo cuore. Ricordo le sue lacrime sotto i nostri baci. Ricordo di averla stretta fra le braccia e aver perdonato a Dio la mancanza di significato”(H&L, pp. 210-211).
“Le toccai i capelli e sentii svolazzare le morbide ciocche. E quando le presi il volto tra le mani – il bel volto magro con il mento deciso, le tempie dal battito lieve e regolare, il naso sottile e diritto e le labbra morbide e sorridenti – Mary mi prese la mano e la baciò” (H&L, p. 51).

L’immagine inafferrabile
Il punto di desiderio e il punto d’angoscia sono al massimo della coincidenza. Eppure, il desiderio, lo sappiamo, non è senza oggetto, c’è sempre un punto zero, come correlativo dell’a piccolo del fantasma, che appare e che dispiegandosi nell’intero campo della visione è fonte di una sorta di quiete, come se ci fosse una sospensione della lacerazione del desiderio, e, allora, il punto d’angoscia, quando non c’è il fascino e il feticismo dello sguardo, dov’è che sospende la lacerazione del desiderio?
Il soffio, prima del buio eterno, è questo che si produce dallo zero di a.
Non si dimentichi che Lacan segnalò in un seminario: “l’occhio bianco del cieco [è] come l’immagine rivelata, e al contempo irrimediabilmente nascosta, del desiderio scopofilico. Anche l’occhio del voyeur appare all’Altro per quel che è: impotente. È proprio questo a permettere alla nostra civiltà di inscatolare ciò che lo sostiene [ci si riferisce all’oggetto a] in forme diverse, perfettamente omogenee ai dividendi e alle riserve bancarie che esso impone”[7]. L’oggetto a, che non è speculare, è inafferrabile nell’immagine, ed è così che guarda Homer, il suo bianco dell’occhio guarda Mary, Julia, Jacqueline, e cosa vede? Il suo oggetto a, che è ciò che manca, vede l’immagine inafferrabile.

Ciò che entra nell’orecchio e il viaggiatore che aveva perduto la mappa
Che cosa entra in casa se non il mondo e la guerra e l’automobile, i crimini e le catastrofi che, lo sappiamo, fanno il loro ingresso in scena gioioso e ufficiale. Questa totalità del Bene e del Male ci oltrepassa ma non c’è nessuna intelligenza delle cose al di fuori di questa regola fondamentale: “Di fronte a noi stanno eventi di tutti i tipi, imprevedibili. Sono già stati, o stanno per arrivare. Non possiamo fare altro che puntare in qualche modo un proiettore e mantenere l’apertura telescopica su questo mondo virtuale, nella speranza che alcuni di questi eventi abbiano la cortesia di lasciarsi riprendere”[8]. Langley porta tutto in casa e Homer imprevedibilmente punta in qualche modo un proiettore e mantiene l’apertura telescopica su questo mondo virtuale; scruta il cielo e tira giù ologrammi, non logogrammi, lui tenta di spiegarli o di piegarli, ma non è possibile, come non è possibile spiegare lo spettro fisso di una sella o le variazioni del rosso.
L’alterità radicale, che, prima che la mano del fratello non possa più dirgli che non è solo, è già arrivata, ma si capisce perché,perché Homer è per lei che scrive della sua vita di fronte al parco, della sua storia degna di quelle persiane nere, della sua casa, che è un’attrazione più grande dell’Empire State Building.
E Jacqueline Roux, cronista di “Le Monde”, è una estraneità in fin dei conti inintelligibile, il significato della forma e della singolarità dell’evento dell’altro; è l’irruzione di ciò ch proviene da un altro luogo, è la seduzione dell’estraneo e la devoluzione dell’estraneo, e per Homer, che non ha mai avuto la propria ombra, è necessario più di ogni altro essere umano essere seguito da qualcun altro:per lui, “il viaggiatore che aveva perduto la mappa” (H&L, p. 104), è assolutamente urgente che qualcuno si metta sulle sue tracce, e, così facendo, Jacqueline Roux le cancella e lo fa sparire.
Ma allora il protagonista cieco che cosa può conoscere, nominare, designare?

La casa e l’oggetto cedibile
La casa, come luogo che ci sfugge, attraverso cui noi sfuggiamo a noi stessi?
La casa che non è il luogo del desiderio, o dell’alienazione, ma della vertigine, dell’eclissi, dell’apparizione e della sparizione, dello scintillio dell’essere o del soffio dell’essere?
La casa che è quell’indifferenza sovrana dell’Altro nei nostri riguardi, dove l’alterità sovrana dell’Altro può irrompere anche se non l’hai visto o non lo vedrai?
La casa, in cui fa irruzione un oggetto, una persona, un sogno, una donna, un deserto, un mondo, la cui evidenza è folgorante, pur essendo ciechi?
La casa, che è il luogo del nostro segreto, di tutto ciò che in noi non è più dell’ordine della verità? Che non è, come nell’amore, il luogo della nostra somiglianza, né come nell’alienazione il luogo della nostra differenza, né il tipo ideale di ciò che siamo, né l’ideale nascosto di ciò che ci manca, bensì il luogo di chi ci sfugge, attraverso cui noi sfuggiamo a noi stessi?
Questo può voler dire che non ci sia nessun posto in cui questo luogo dell’Altro trovi alloggio al di fuori dello spazio reale, cioè a casa Collyer, nel nostro caso, e di Homer,in particolare, questo soggetto che, se avesse potuto vedere l’ombra o riflettersi nello specchio, avrebbe visto che l’oggetto a, quando non può essere visto, non può nemmeno rendere speculari lo stadio anale e quello scopico, per cui il soggetto, beh, è evidente, è allora che cede, o ha ceduto, alla situazione.
Pertanto è nell’ordine della funzione di oggetto cedibile che l’oggetto anale interviene nella funzione del desiderio; quando questo ha tutto il peso della casa con tutti gli oggetti collazionati, è allora che l’oggetto cedibile ha la figura di Jacqueline, ed è allora che c’è stato uno schianto, l’intera casa ha tremato.
Dov’è Langley?
Dov’è la mano di mio fratello, ciò che entra nell’orecchio?
Il significante che faceva entrare la verità nel mondo prima di qualsiasi contatto in quale vuoto è precipitato?
Un po’ più sotto lo stadio anale, c’è il capezzolo o qualsiasi oggetto a cui afferrarsi; un po’ sopra, avrebbe dovuto esserci lo stadio fallico,ma quando lo stadio scopico è stato fulminato, l’oggetto a ha una misura quantica piccola, l’incertezza diventa significante[9], ma – giacché è fuori da ogni pulsione scopofilia – il Super-io è nell’aphanisis di a, se capite quello che voglio dire capirete perché c’è stato uno schianto, l’intera casa ha tremato.
Dov’è Langley?
Dov’è mio fratello, il mio Super-io?
Non restava altro che il contatto con la mano del mio Super-io a dirmi che non sono solo.

Il calendario
E il calendario?
Il calendario che non c’è ti fa vivere “dentro una xilografia giapponese,come quelle appese dietro la scrivania nello studio di mio padre, con le esili figurine stilizzate che sembravano ancora più piccole sullo sfondo delle montagne coperte di neve,oppure che avanzavano su un ponte di legno, riparandosi dalla pioggia sotto gli ombrelli” (H&L, p. 90) anche quando la guerra entra in casa e “il progetto dei giornali sembrava perfettamente al passo con i tempi. Tutti i giorni,mattina e pomeriggio, Langley leggeva i quotidiani con attenzione febbrile” (H&L, p. 93).
Anche quando Langley “calcolò quanto avevamo speso in un mese e, dimenticando di aver prescritto colazione e cena fuori come metodo per migliorare il mio stato d’animo, decise di cucinare a casa” (H&L, p. 113).
Anche quando “mio fratello aveva staccato la spina e buttato il televisore in un angolo, e da allora non avremmo più guardato la Tv fino a una decina d’anni dopo, quando gli astronauti sbarcarono sulla Luna. Non dissi mai a Langley che anch’io, a mio modo, potevo vedere lo schermo televisivo: lo vedevo come una macchia oblunga appena più chiara dell’oscurità dominante. Lo immaginavo come l’occhio di un oracolo che guardava dentro casa nostra” (H&L, p. 119).
Anche quando “squillò il telefono [e] ero seduto accanto al tavolino della radio, nello studio di nostro padre. Sussultai. Non ci chiamava mai nessuno. (…) Una voce maschile disse: “parlo con l’arcidiocesi?”,”No, questa è la residenza dei Collyer” dissi” (H&L, p. 120).
Anche quando “Langley mi raccontò che, mentre girava per la casa con una mano sopra lo squarcio dell’orecchio, Vincent trovò uno dei nostri elmetti militari e lo indossò. E poi gli venne voglia di specchiarsi, e gli uomini portarono giù lo specchio da terra, uno specchio girevole da signora, dalla camera da letto di mia madre” (H&L, p. 129).
Anche quando “mi accorsi che Vincent si preparava a partire, cominciai a spaventarmi. Volevo che se ne andasse, certo, ma in che modo avrebbe deciso di dirci addio?” (H&L, p. 130).
Anche quando “per una settimana lavorai con i colori a dita per bambini, tubetti di tintura appiccicosa che Langley mi faceva spalmare su fogli di carta per vedere se imparavo a distinguere i colori al tatto. Naturalmente non imparai” (H&L, p. 139).
Anche quando “che giorni felici erano quelli, quando Langley aveva quasi dimenticato perché si era messo a dipingere. Lo sentivo lavorare al cavalletto, fumando e tossendo, e io fiutavo il fumo delle sigarette e l’odore della pittura a olio e mi sentivo di nuovo me stesso” (H&L, p. 141).
Anche quando “quel giorno si teneva una dimostrazione contro la guerra sul Great Lawn di Central Park, e noi decidemmo di darvi un’occhiata. La sentimmo molto prima di arrivare sul posto, da principio la voce roca amplificata che mi pulsava nelle orecchie, anche se non si capivano le parole, e poi gli applausi, un suono non amplificato, più piatto e aperto, come se l’oratore e il pubblico si trovassero in due territori diversi:una vetta, forse, e una vallata” (H&L, p. 148).
Anche quando “Langley mi disse che Alba e Tramonto erano carine,ma di scarso spessore intellettuale. Portavano gonne lunghe, stivali e giacche con le frange, fascette e bracciali di perline. Erano più alte di Connor e sembravano quasi sorelle” (H&L, p. 152).
Anche quando “quella bizzarra congiunzione astrale durò quasi una settimana” (H&L, p. 153).
Anche quando “stava arrivando il freddo, eravamo già in novembre? Non ricordo. Ma nessuno di loro riusciva ad accettare l’inverno. (…) Intuii che stavano per partire quando prepararono una grande cena da consumare tutti insieme” (H&L, p. 163).
Anche quando “la casa, a quel punto della nostra vita, era ormai un labirinto di viottoli pericolosi, pieno di ostacoli e vicoli ciechi. Se c’era luce a sufficienza era possibile farsi strada negli zigzaganti corridoi di balle di giornali, o trovare un varco infilandosi di traverso fra mucchi di oggetti vari – parti meccaniche, cassette degli attrezzi, quadri, pezzi di carrozzerie di automobili, copertoni, sedie accatastate, tavoli sopra tavoli, testate di letti, barili, pile di libri crollate, lampade d’antiquariato, pezzi di mobili dei nostri genitori, tappeti arrotolati, mucchi di vestiti, biciclette- ma occorreva il dono naturale di un cieco, quello di percepire la posizione degli oggetti dall’aria che li circondava, per andare da una stanza all’altra senza ammazzarsi” (H&L, p. 166).
Anche quando “il giornale dei suoi sogni non poteva limitarsi ai fatti di cronaca: l’edizione unica per tutti i tempi richiedeva un resoconto dolorosamente categorico delle tendenze abituali della nostra specie. Così si scontrò con il grosso problema organizzativo di setacciare annate di quotidiani, in cerca di episodi salienti e attività immutabili” (H&L, p. 174).
Anche quando “cerco di raccontare la nostra vita in questa casa negli ultimi anni (…) il tempo mi sembra una deriva, una sabbia mobile. E la mia mente gli va dietro. Mi sto logorando. Sento che non ho l’agio di sforzarmi in cerca della data precisa, della parola giusta.” (H&L, p.183).
Anche quando “la primavera seguente estinguemmo l’ipoteca. Come mi sembra d’aver già detto, Langley decise di farlo di persona” (H&L, p. 189).
Anche quando “mentre cercavo di addormentarmi [una notte] mi venne in mente una frase di Langley. ‘ogni cosa viva è in guerra’ aveva detto. Pensai alla riduzione dei miei sensi, all’idea terrificante che la mia coscienza, espandendosi, stesse lentamente soppiantando il mondo al di fuori della mia mente, e mi domandai se fosse possibile che stessi diventando progressivamente ignaro della realtà della nostra situazione, della sua gravità, grazie a un’insensibilità che mi metteva al riparo dalle sue peggiori manifestazioni visive e sonore” (H&L, p. 207).
L'eteropia di Foucault

Il contro-spazio e l’eterotopia multipla a New York City
Quando la casa è un contro-spazio, come lo intende Foucault[10], in cui si può realizzare tutta la perfezione simbolica del mondo tutto intero, la casa come un luogo reale fuori da tutti i luoghi, dentro New York City, di fronte al Central Park ma senza che lo spazio della città abbia la cronologia del calendario, allora si è negli interstizi delle parole degli uomini, nello spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni, nel vuoto dei loro cuori, insomma è la dolcezza delle utopie di Homer ma dentro un’utopia che non ha un tempo determinato se non la vita stessa, un tempo che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni, ma senza che il calendario determini le coordinate di questo spazio quadrettato e ritagliato, con zone luminose e zone buie, la casa Collyer come un contro-spazio reinventato dai fratelli come un luogo reale fuori da tutti i luoghi, come se fosse un giardino, un cimitero, un manicomio, una casa chiusa, una prigione, un motel, una eterotopia multipla[11], tra eterotopia di deviazione ed eterotopia biologica, ai margini e dentro Central Park, dentro New York ma non dentro il suo calendario amministrativo; l’eterotopia multipla dei Collyer non è in relazione col tempo, non è un teatro, né una fiera, anche se ad essa rinvia per gli oggetti eterocliti che contiene; non è un’eterotopia di eternità, come il museo e la biblioteca, anche se ha aspetti dell’uno e dell’altra, ma irride l’eternità perché sta cadendo a pezzi; accumula sì il tempo ma non per cancellarlo quanto per farne un’implosione libidica; non è nemmeno un’eterotopia di passaggio o di trasformazione, forse permette ad alcuni una momentanea rigenerazione ma non è né un collegio, né una caserma, né una prigione se non per chi la possiede. Ha, però, dell’eterotopologia, questo principio di Foucault: il sistema di apertura e di chiusura che la isola nei confronti dello spazio circostante.
Come in ogni eterotopia, a casa Collyer non si entra a piacimento: ci si entra o perché si è costretti (come nelle prigioni, evidentemente) o perché ci si è sottomessi a dei riti, a una purificazione.
Quando vi entra la guerra, o vi fa ritorno, o quando la realtà che sta fuori non è nell’illusione creata dal contro-spazio, allora è come la nave, perché la civiltà o New York come civiltà senza navi è come i bambini i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare o quando sono usciti hanno chiuso a chiave la camera da letto e allora i loro sogni si inaridiscono, e lo squallore della polizia e della burocrazia prende il posto dell’assolata o omerica bellezza dei corsari.
L’eterotopia multipla di casa Collyer è come la nave che naviga senza sestante, al timone Homer non segue rotte che siano dentro lo spazio quadrettato del Reticolato rapportatore Aquino [o dentro le carte marine in bianco che riproducono la rete dei meridiani e dei paralleli in proiezione di Mercatore come per esempio nei dodici fogli di Position plotting sheet, pubblicati dall’Ufficio Idrografico degli Stati Uniti][12], d’altronde è in un contro-spazio in cui la risoluzione temporale del progetto di Langley per il Giornale Universale Onnicomprensivo non implica il calendario.
“La mia oscurità e il mio silenzio sono più profondi dell’abisso marino cantato dal poeta” (H&L, p. 191).

E Cinoc?
E Cinoc?
Cinoc esercitava uno strano mestiere, faceva l’“ammazzaparole”, mentre altri redattori del dizionario Larousse erano sempre alla ricerca di parole e significati nuovi, lui doveva eliminare tutte le parole e tutti i significati caduti in disuso, “quando dopo cinquantatré anni di servizio andò in pensione, aveva fatto sparire centinaia e migliaia di attrezzi, tecniche, usi, costumi, motti, piatti, giochi, soprannomi, pesi e misure; aveva cancellato dalla carta geografica decine di isole, centinaia di città e di fiumi,migliaia di capoluoghi cantonali; aveva rispedito nel loro anonimato tassonomico centinaia e centinaia di tipi di vacche, specie d’insetti, di uccelli e di serpenti, pesci un po’ particolari, varietà di conchiglie, piante non del tutto simili, tipi speciali di legumi e di frutti; aveva fatto svanire nella notte dei tempi legioni di geografi,missionari,entomologi, Padri della Chiesa, letterati, generali, Dei & Demoni”[13], come dire che Cinoc, quel tocco, quello svitato, aveva potuto cancellare chissà quante parole dai giornali accumulati a tonnellate in casa Collyer, tanto che fu allora che, al di là dell’oceano, dove poteva essere Linhaus, ci fu uno schianto, l’intera casa Collyer tremò?
Cinoc è qua dentro
L’eterotopia homerica e l’eterotopia langleyana: strutture, archetipi e schemi verbali
L’eterotopia metropolitana dei Collyer per questo poteva essere sia il sintema della nave che quello della miniera, la caverna, sostanzialmente ha sempre lo schema verbale del Confondere[14], da cui “discendere”, “possedere”, “penetrare”, e vi operano i principi di analogia e di similitudine.
La cifra è più profondamente quella della chiusura, tra “dimora” e “culla”, tra “cofano”, il Model T della Ford, raddoppia nella sala da pranzo la struttura mistica, e, “arcano” fino alla bellezza commestibile se non all’angelus di Dalì, che è sempre nel segno della “dimora” e della “barca”, un habitat come mezzo di trasporto nel tempo della caverna adorabile, un luogo chiuso è sempre un’”isola” in miniatura dove il tempo sospende il volo.
L’eterotopia homerica è più dentro la struttura della viscosità e dell’adesività antifrastica, ha il riflesso dominante “digerente” con derivati tattili, olfattivi e gustativi, quantunque i derivati motori ritmici e le cooperanti musicali siano sotto il riflesso della dominante “copulativa”.
La casa, così, è più isola o caverna, per quanto ci sia stata musica quando l’archetipo epiteto era “in avanti”, il “futuro”; quando l’epiteto si fa tanto profondo da divenire “nascosto” e il “discendere” è lo schema verbale, al sintema dell’isola e della caverna,o, se vogliamo, della culla e della tomba, corrisponde l’archetipo sostantivo “la donna”, che è, appunto, speculare alla dimora, ed è Jacqueline Rour, la musa, che tira dentro qualcosa di terribile a New York City, l’erba bagnata di Central Park e, cosa ancora più terribile, dice a Homer che Central Park “è sprofondato nel punto più basso della città. E poi è pieno di stagni, pozze e laghi, come se stesse lentamente affondando” (H&L, p. 194), un parco sommerso, una cattedrale della natura sommersa dentro una città sopraelevata, insomma con lo schema verbale antifrastico del Discendere, come la “dimora”, la “caverna” (o la “miniera”), la “tomba” e la “culla”.
L’eterotopia langleyana non può che avere lo schema verbale del Confondere, che è lo schema verbale del regime notturno e mistico del fratello, ma lui lo abbina allo schema verbale del Distinguere, tra “separare”, “mescolare” e “salire”, parte dall’antitesi polemica, che è nella struttura diurna ed eroica, ma finisce nell’adesività antifrastica e sensoriale del fratello. La sua dominante è di posizione, ma la cooperazione a distanza (vista, audio fonazione) fa sì che i suoi sintèmi, afferenti alle armi, alla corazza, al recinto, siano commutabili, inizialmente, dalla dominante copulativa, notturna, del fratello, come se all’”occhio del padre” (struttura schizomorfa e diurna), che non c’è più, subentrasse il sintèma notturno e drammatico, prima, della “musica” e, poi, definitivamente, dell’ “isola”, o la “culla”, la “barca” o la “caverna”, che sono simboli mistici.

La geometria del tempo e la madre del plurale
Il calendario appartiene al dominio geometrico del tempo; il nostro calendario gregoriano, con la sua divisione duodecimale, fa appello ai riferimenti lunari: ecco perché nell’eterotopia dei Collyer non appare, per via di uno schema verbale, Ritornare, che,come il “danaro” e la “luna”, o la “ruota”, sono archetipi sostantivi delle strutture drammatiche.
Fosse stato Ritornare lo schema verbale dell’eterotopia metropolitana,anziché Discendere o Possedere, essendo dal lato della “luna”, che è “la madre del plurale” ed è l’archetipo della misurazione, avremmo avuto la comparsa del calendario e, per questo, un’altra eterotopia.
Comunque sia, vedete come mancano le due feste del ritorno, il Natale solare e la Pasqua lunare, e mancano anche le tre ore del giorno di Omero: aurora, mezzogiorno, crepuscolo.
Il calendario, che ha la ciclicità delle strutture sintetiche e drammatiche della storicizzazione e della progressione, è in qualche modo virtualizzato o collassato nel progetto schizomorfo del giornale universale e atemporale di Langley, in cui lo schema verbale del Distinguere (Separare/Mescolare; Salire/Cadere) deve, per farsi mistico in virtù di Homer, essere realizzato con lo schema verbale del Confondere, in cui tutto discende e penetra verso il “centro”, la “sostanza” della “caverna” o della “miniera”.
L’implosione del movimento circolare e dei ritmi,è che l’ordito che, se andiamo a vedere, c’è nell’archetipo sostantivo del nome “Collier”, che, canadese o francese che sia, è sempre nell’ordine della “collana” fino a che si faccia “capestro”: la tessitura, l’ordiri, il cominciare, l’exordium è bloccato, il va e vieni della spola sul telaio per tessere cosmico si fa fuso, ma fuso della totalità temporale, terrestre tesoro della tenuta che un bel giorno ha perso il ritmo segreto del divenire.
Senza ruota, eccolo il Model T immobilizzato nella sala da pranzo, le quattro ruote, cioè i fratelli e i genitori, la ruota del calendario, l’emblema circolare o sferico dell’archetipo del ciclo, il Model T senza le quattro fasi della luna.
Dentro l’immobilità del proprio nome, tra “Collier” (“collana”, “capestro”) e “Collyer”[15] (“miniera”), i soli schemi verbali dallo schizomorfo Salire/Cadere di Langley al Discendere di Homer, la “collana-casa” tra l’“occhio del padre” (regime diurno) perduto e la notte o il “recipiente-microcosmo” della madre (regime notturno) persa.
La temporalità di casa Collyer non ha gli aspetti tecnici dell’attività umana, l’intreccio interattivo tra i fratelli è dentro uno schema in cui, mancando il calendario, che afferisce all’aspetto tecnico, ci sono, come aspetto formale, delle “sequenze temporali” ingenerate dagli aspetti informali dei “cicli”.
Ecco perché nella sua lingua, la lingua di Homer, che la sente tra “gesto interattivo” (informale) e “tono di voce” (formale), non ci sono aspetti tecnici.
Questa deprivazione tecnologica, questo smontare dentro casa, si pensi al Model T messo in sala da pranzo senza ruote, o all’accatastamento dei giornali per quel giornale eterotopico senza calendario, combina quelli che Edward T. Hall chiama SMP (Sistemi di Messaggio Primario) secondo un informale schema protettivo della territorialità.
D’altra parte, lo specifico grado di distanza che formalizza l’SMP dell’“interazione” di Homer è sempre nella forchetta dell’Accostato (da 8 a 12 pollici, tra 20 e 30 centimetri) e del Molto accostato (tra 3 e 6 pollici, da 7,5 a 15 centimetri): si va dal molto confidenziale, come sussurro intelligibile, al tenue sussurro, al segretissimo, con qualche variante verso il Vicino (tra 12 e 20 pollici, tra 30 e 50 centimetri) più che altro all’esterno, dentro New York City.



[1] Cfr. Witold Gombrowicz, Diario, Volume I (1953-1958), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004.
[2] Cinoc, che è il Sinosse, Sinok, Sinotch, Chinoch, Chinosse, di Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, trad. it. RCS Rizzoli Libri, Milano 1984, da cui verrà tratto il passo del Capitolo LXXXIV Cinoc,2, nella traduzione di Dianella Selvatico Estense.
[3] E.L. Doctorow, Homer & Langley, trad. it., Mondadori, Milano 2010, p. 23. Ogni passo estratto dal romanzo di Doctorow si riferisce a questa traduzione e viene indicato nel testo in parentesi con H&L e la pagina.
[4] Visto che c’è dentro Cinoc per i calendari delle poste in cucina, è da dire che anche nella cantina dei Gratiolet, in cui varie generazioni vi hanno accumulato rifiuti e scarti, che nessuno ha mai riordinato né smistato, vi sono pile e pile di giornali scompagnati: L’Illustration, Point de Vue, Radar, Détective, Réalitées, Images du Monde, Comoedia, Paris-Match, Historia (cfr. Georges Perec, op. cit.: Capitolo XXXIII, Cantine,1).
[5] Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, trad. cit.: capitolo indicato alla nota 2.
[6] Jacques Lacan, Le palpebre di Buddha, in Idem, Il seminario Libro X, trad. it., Einaudi, Torino 2007, p. 242.
[7] Jacques Lacan, La voce di Yahweh, in Idem, Il seminario, Libro X, trad. cit.: p. 276.
[8] Jean Baudrillard, Il teorema della parte maledetta, in Idem, La trasparenza del Male, trad. it., Sugarco edizioni, Milano 1999, p. 121.
[9] Cfr. V.S. Gaudio, L’eterotopia dislocata. La libido ubiquista delle mule irlandesi e la finestra di Morselli, in Morselliana, a cura di Alessandro Gaudio, “Rivista di Studi Italiani”, anno XXVII, n. 2, dicembre 2009, on line al seguente indirizzo: rivistadistudiitaliani.it 
[10] Cfr. Michel Foucault, Le eterotopie [1966], in Idem, Utopie Eterotopie, trad. it., Cronopio, Napoli 2006.
[11] Nell’eterotopia multipla (o, quantomeno, a doppia struttura, cioè a piena struttura circadiana), dove non esistono le estensioni economiche della tecnologia o che sono, quantomeno, interrotti dagli schemi protettivi della territorialità, il problema amministrativo con la Con Edison (l’azienda elettrica) rinvia dalle virtù tecnico-creative (mai accese, non attuate) di Langley (nato il 3-10-1885, che sembra che fosse Laureato in ingegneria) a quelle di Edison, il cui genio inventivo straordinario lo rese titolare di 1200 brevetti riguardanti, oltre le attività elettriche, le costruzioni e, non ci crederete, le estrazioni minerarie che, come un boomerang, rinvia alla “miniera” di “Collyer”.
[12] Sembra che Homer Lusk Collyer (6-11-1881; 21-3-1947) fosse addirittura laureato in diritto di navigazione. Ma, nonostante questo, pare che non siano stati rinvenuti, nell’incredibile groviglio di mobili, oggetti, giornali, libri e parti meccaniche, “un goniometro, specie di rapportatore di legno articolato, che dicono appartenuto all’astronomo Nicolas Kratzer; una ‘marinaretta’ – compagna del marinaio – ago magnetico che segnalava il nord, sostenuta da due festuche di paglia sull’acqua di una boccia mezzo piena, strumento primitivo antenato della bussola vera e propria che, munita di una rosa dei venti, comparve solo tre secoli dopo; un servizio da scrivania navale, di fabbricazione inglese, completamente smontabile, che offre tutto un assortimento di cassetti e ribalte allungabili”. Cioè quegli oggetti emersi qua e là dal cianfrusagliume nella cantina della signora Marcia, di cui narra Georges Perec, op. cit.: Capitolo XCI Cantine, 5.
[13] Georges Perec. Op. cit.: Capitolo LXXXIV Cinoc, 2. Dalle venti pronunce elencate da Perec per “Cinoc”, che, in gergo, sta per “svitato”, “tocco” quando viene chiamato “Sinoque”, si arriva a “Linhaus”, passando per Kleinhof, Klajnhoff, Kleinhof, Klinov, Szinowcz, Kheinhoss, Kinoss.
[14] Ci si sta riferendo all’archetipologia generale di cui a Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, trad. it. Edizioni Dedalo, Bari 1972.
[15] Come per “Cinoc” di Perec,le varianti del cognome Collyer vanno da Collier a Coller, da Collard,a Calder, a Colliar, Colleir, fino a Koller se non Kohler (che, in tedesco, è “carbonaio”), ma che, per il sigaro di cui alla scimmia del calendario in cucina da Cinoc, ci fa pensare a Herman Kohler che nasce nel 1857, come il padre dei Collyer, e che è nel Census plan di Chicago nel 1880 come “cigar maker”.


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L'Homerotopia è apparso online la prima volta su "lunarionuovo
in: Americana: E.L.Doctorow, insieme a un testo di 
Alessandro Gaudio: "La fantasia esausta di Doctorow":