La leggenda delle 'ntrocchje ammašcanti e la salatura dell'angioa


DRUUNA E IL CULO DI GNESA



Come il Cornuto Trascendentale rende produttiva
la concupiscenza da trotto della moglie

La  pratica equina di Giovanna I d’Angiò e il fatto che teatro della sua ninfomania sia stato Amantea, cittadina calabrese sulla costa del mar Tirreno, inducono a non tanto strane correlazioni tra il “ciuccio”,come mezzo di trasporto e perciò di lavoro, e i mestieranti ambulanti che percorrevano l’Italia fin dal XIV secolo. Popolazioni erranti che, utilizzando nel tempo un linguaggio che si fa sempre più specifico, finiscono con l’organizzarsi in confraternite, la cui “specializzazione comunicativa” marca e delimita un’élite, una sorta di setta, che mantiene, all’interno della circolarità dei rapporti,la segretezza degli intenti o, se vogliamo, una certa cripticità morale e di costumi.
Il gergo dei mestieranti e la specificità del loro mezzo di trasporto, il “ciuccio”, costituiscono gli elementi chiave della circolarità interattiva. Non è un caso se recentemente sia stato pubblicato un saggio sul “gergo dei quadarari”, di stanza in un paesino situato a pochi chilometri da Cosenza e che, quindi,si collega alla storia della “nostra” regina per virtù metonimiche.Il linguaggio specifico dei calderai è detto ammašcante.
Per altre virtù metonimiche, chi scrive ha trovato connessioni tra questo paese dichiaratamente “ammašcante” della provincia di Cosenza, dal lato del Tirreno e quindi di Amantea, e un altro segretamente “ammašcante”, dal lato del mar Jonio e quindi con la stessa relazione (che il primo ha con Amantea) con il paese sul litorale da dove sta scrivendo chi narra.
Non indicheremo i nomi delle due località se non con un rimando etimologico che ne coniuga la medesima origine: ognuno dei nomi è formato da tre lemmi del sanscrito trasformati in una sola parola per contaminazione.
Il paese  dal lato del Tirreno ha un nome che, in sanscrito, contiene questo significato:”usare la moglie per fiammeggiare e bruciare”; il paese dal lato dello Jonio ha un nome che, in sanscrito, contiene questo significato: “coloro che sono capaci di annientare chi manca”.
Narra una “leggenda delle paludi”,che nella sibaritide costituivano l’organicità territoriale distintiva prima della bonifica fascista, che le donne di questo paese, segretamente ammašcante, siano particolarmente avide in ambito sessuale o, se il senso è contiguo,  particolarmente disponibili alla monta.
Nell’alto Jonio, con tipica espressione gergale, gli individui provenienti da questa località sono denominati  “’Gliaroni “, con una espressione o un segno che ha subito, per dirla con il linguista della Scuola di Copenaghen Louis Hjelmslev, una trasformazione funzionale sia di dissimilazione che di contaminazione: difatti, il segno originale che li connota è l’ “ogliarola”, ossìa l’oliera che i “quadarari”(i calderai) costruivano in rame e che evidentemente questi “ammašcanti misteriosi” portavano piena di olio da vendere agli abitanti della costa jonica, dove, ancora negli anni sessanta, approdavano all’albeggiare con la loro cavalcatura, carica anche di legna, carbonella, uova, e altro.
La dissimilazione fa sì, come la intende Hjelmslev, che i soggetti parlanti evitino di ripetere uno stesso movimento di articolazione in due elementi:
sostituendo n a l  si evita la ripetizione del movimento delle labbra necessario alla pronuncia di l .
La contaminazione fa sì, invece, che siano stati  confusi due segni(o parole): ogliaroli e ‘mbroni(che, nel gergo ammašcante, ha a che fare con il buio, la notte, l’imbrunire): così “ ‘Gliaroni “ è dovuto alla contaminazione di “ogliaroli” + “’mbroni”, cioè coloro che, di notte, si incamminano con l’”ogliarola”.
C’è un’altra “leggenda delle paludi”(di seguito nel testo sarà citata come la  “2a leggenda delle paludi”) che, come il giovane Padula per il culo di Gnesa, sentii narrare nella mia adolescenza: “Un uomo deve fottere nel culo una donna ‘gliarona, ma la sua verga non riesce a penetrare nel buco posteriore della donna. Così, la saggia femmina, che è scesa alla marina con l’ogliarola piena, provvede alla lubrificazione dell’ano permettendo la messa in opera dell’agognata inculata”.
A questo punto, il lettore comincia a intendere le ragioni che connettono, in profondità, la “ninfomania marina” di Giovanna I d’Angiò e la “ninfomania marina” segreta delle donne ‘gliarone, che, va detto, è anche all’origine del progressivo fenomeno immigratorio nel locus in cui, con il favore dell’abbrunare ancora in atto o di un far giorno ancora non esplicito, trovavano sollazzo e gaudio per i ticchi fervidamente cullati a dorso di mulo o di ciuccio.
Ma cosa c’entra, qualcuno si chiederà, la regina di Napoli con una popolazione segretamente ammašcante, le cui donne hanno, giustamente, voglia di soddisfare un po’ di “concupiscenza da trotto”?
La segretezza originaria di questa popolazione, che, a differenza del paese situato a ridosso del Tirreno, non esprime la propria natura ammašcante, fa pensare ad azioni tenute segrete, fa supporre che, così adombrate, tale popolazione lasci all’oscuro non solo le sue origini ma anche i suoi fini. Nel corso dei secoli, l’indecifrabile si fa cifra dell’inaccessibile ma anche marca del tacere, dell’insabbiare, del soffocare ogni genere di scandalo o di espressione diversa.
Il gergo ammašcante è il linguaggio nascosto di popolazioni nomadi o semistanziali che, essendo all’origine mestieranti e lavoratori stagionali, finiscono con l’occupare determinati luoghi costituendo una segreta geografia di rapporti e di interessi.
Alcuni paesi si dichiarano espressamente ammašcanti.
Altri nascondono nel seno della loro storia non solo orale l’origine.Ed è questa “mascheratura” che riserva propositi, intenzioni, progetti che, per la loro stessa natura segreta, potrebbero essere proibitivi, turbolenti, arruffati, esclusivi, proscrittivi.
Se il gergo si costituisce su una specificità espressiva comune, chi appartiene a questa affiliazione è affiliato, iniziato, componente, seguace, accolito, iscritto, aderente ad una comunità, una moltitudine, una schiera,una legione, una setta in ragione di una specificità linguistica che, nel tempo, è diventata, da geografica e territoriale, politica e quindi socioeconomica? E se persegue, perciò, fini socioeconomici, ed essendo gergale l’anello che lega l’organizzazione, non saranno gergali, e perciò criptiche e oscure le attuazioni e le messe in opera, e addirittura massoniche le regole?
Per la sua stessa natura , l’ammašcatura contiene i gerghi dei ramai, dei seggiolai, dei giostrai, degli arbëreshë, del furbesco, della malavita, dell’argot, dei vagabondi, degli zingari, degli stagnini, degli arrotini, degli spazzacamini, degli ambulanti, dei calderai trentini, dei salumai della Val Rendena, dei ramieri ambulanti della Valle di Tasino, dei calderai di Locana, dei seggiolai di Lamon, di Gosaldo. Contiene, perciò, una geografia “ammašcata”, nascosta, particolare, che può connettere uno sperduto paesino della piana di Sibari, un paesino in provincia di Alessandria con un borgo sardo, uno delle Marche con uno in provincia di Belluno.
Adesso potrò rispondere al lettore dubbioso sul rapporto proporzionale tra la regina ninfomane e la donna, segretamente ammašcante, fornicatrice spinta.
Le popolazioni gergali ambulanti hanno, nelle loro secolari deambulazioni e peregrinazioni, copiato usi e costumi, e usurpato titoli e nomi, giusto per vedere l’effetto-ridondanza in un altro luogo verso cui erano diretti. Non sta a noi specificare come nelle località a organizzazione ammašcante vi siano molti cognomi di grande risonanza anche storica: in questo brigantaggio, non solo onomastico, questa popolazione ha cercato di imitare, per quanto ad alcuni di essi riuscisse di farlo, anche i costumi dei signori e dei regnanti, di cui invidiavano, nel loro peregrinare, la magnificenza e le possibilità operative. Ecco perché a chi scrive, anche in ragione di una mappa cognitiva che racchiude le citate leggende delle paludi, è parsa lampante la connessione tra la Giovanna I d’Angiò e la ‘ntrocchja ammašcante: tanto la donna si è data ai signori di queste terre ioniche nel corso di questi secoli che un’altra leggenda delle paludi (è la  3a che citiamo), narratami da un mio avo, dice che, quando i padroni erano i veneziani Correr, un nostro nobile ascendente, fottitore di potte per niente secondo a Giacomo Casanova, avendo trombato tutte le donne di questo locus ammašcante, queste, adducendo generazioni infinite, pretesero, per i supposti futuribili discendenti, terre e averi. Ma erano tante le presunzioni che, essendo finito il tempo della Repubblica di Venezia, intervenne il vescovo a farsi arbitro di concessioni, appalti, riconoscimenti, gratifiche, elargizioni, omaggi forestali, sportule. Così, il nostro ascendente trombatore fu letteralmente fottuto e, con lui, chi mi narrò la leggenda e chi ve ne ha messo al corrente.
Infine, c’è un altro elemento che accomuna la disponibilità sessuale dell’ammašcante e la voracità di Giovanna I d’Angiò: la sodomia.
Posta la costituzione oscura dei gruppi ammašcanti, e per tanto essendo impossibile a soggetti di altri gruppi non ammašcanti accedervi, la discendenza è regolata da una riproduzione soggetta a un dispositivo di alleanza (sensu Foucault) funzionale solo all’interno del circuito endogamico. Anche quando sposano un soggetto abitante e/o nato in un altro paese, l’endogamia è realizzata perché il soggetto sposato, pur appartenendo ad un altro habitat geografico, ha una genesi ammâscante, ovvero appartiene ad un paese integralmente ammâscante.
La sessualità ingorda della ‘gliarona, di cui dice la 1a leggenda delle paludi, può ovviare a questa regola restrittiva, in mancanza di strumenti di controllo generativo, con un’alta frequenza di coiti anali. Così, le ‘ntrocchje inculate, di cui alla 3a leggenda delle paludi, con una variante sodomita, barattarono le inculate con donazioni, attuate anche con false attestazioni notarili, fottendo crudemente i loro inculatori e portando al marito cornuto il guadagnato frutto del culo, salvaguardando in tutto e per tutto la esclusiva riproduzione endogamica ammašcante.
Giovanna I, ad Amantea, a chi la chiavava in culo, gli metteva il fallo in salagione perenne; le ‘ntrocchje ammâscanti dello Jonio, col culo, non solo si riempiono di sperma ma anche di terre e di averi. Tanto che si dice che Charles Fourier quando, nella Tavola delle Corna, compose il ritratto del “Cornuto Trascendentale”, il numero 25, non poteva non pensare a questi poveri mariti che mostravano la mogli sul ciuccio, senza accordarla a un pinco pallino nullatenente, fino a quando lei non avesse acceso un determinato proprietario terriero, a cui cederla in cambio di una grossa fortuna, purché, così vuole la costituzione criptica, ne preservasse la riproduzione secondo il “dispositivo di alleanza” endogamico. Caso mai il fottitore debordasse? Se il Cornuto non si addolora, è Grandioso e Impassibile, tanto da diventare prestanome. L’ammašcatura farà in modo di occultarne la progenitura. Se il Cornuto fa casino? E’ il numero 42, il cosiddetto “Fulminante”, che turba l’armonia costitutiva degli amori ammašcati.
Le virtù differenzianti e risolutive stanno, è da dire, negli ingredienti:
a)    con l’olio, le ‘gliarone si riempiono l’orcio e, se c’è fortuna operativa, si fanno, a seconda dei casi, addirittura il frantoio se non l’uliveto e, per di più, ostentando un grado extravergine e senza l’uso della vaselina;
b)   la regina Giovanna I, senza olio, non dico d’oliva ma nemmeno di pesce o di fegato di merluzzo, mette i falli in salagione, ma non per farne dei salami;
c)      con l’olio, il piacere potrà essere rigoduto;
d)     senza olio e messo in salagione, il godimento non è ripetibile;
e)      vuoi vedere che Giovanna I li calava in acqua per via di una insufficiente lubrificazione?




• Bibliografia essenziale

· Michel Foucault, La volontà di sapere, trad.it. Feltrinelli, Milano 1976.
· Charles Fourier, Hiérarchie du cocuage, trad. it. contenuta in: Verso la libertà in amore, La Salamandra, Milano 1980.
· Louis Hjelmslev, Il linguaggio, trad.it. Einaudi, Torino 1970.
· Giulio Palange, La regina dai tre seni. Guida alla Calabria magica e leggendaria, Rubbettino, Soveria Mannelli 1994.
· John Trumper, Una lingua nascosta, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992.




Come abbiamo  visto anche ne “La regina zoofila”, l’uso marittimo del fallo(inabissamenti dei fallaci sburratori nel Mar Tirreno) ad opera di Giovanna I d’Angiò[i] ha correlazioni con la voce volgare quattrocentesca Angioa o Angioma.
L’angioa (proprio così nel calabro-siciliano, rilevano i linguisti, e angioma nel mantovano) è l’acciuga, che, è risaputo, è conservata sotto sale in tutta la Calabria, non solo ad Amantea, dove, delle alici appena schiuse, fanno la mustica, cosa che, nei paesi jonici, è, invece, rifiutata in quanto tende ad annerirsi, alterazione(dovuta all’eccesso di Sali di ferro?) che, al contrario, non si ha con la “sardicella”, le sardine appena schiuse, cosparsa con peperoncino rosso piccante pestato nel mortaio.
Dice il linguista Vignali che il secondo interpretatum alice è registrato dal GDLI già nel poeta duecentesco Chiaro Davanzati ed è qualificato come voce d’area meridionale; e dal LEI, sotto voce allec, che cita alec in Niccolò de’ Rossi, sec. XIV[ii].
Ora cosa si deduce da questa pratica di conservazione della, altrimenti detta, “rosamarina” o “biancumangiari” o “nonnata” o “sardella” o, come voce dell’alto jonio cosentino, “sardicella”?
Che c’è nel nome di persona “Angiò”, che, d’accord, in Francia è “Anjou” ma che, qui, appunto, volgarmente è pronunciato “Angiòa”, se non il contenuto delle alici messe sotto sale: piacevano alla Regina non solo allo stato larvale? O il fatto che la Regina disperdesse in mare tanti potenziali in -seminatori ha fatto della voce volgare angioa la traduzione del latino angluvia, perché, "impeperonando" le alici allo stato larvale, si sarebbe prolungato il tempo del loro uso?
Ma, non dimenticando che le alici “nonnate” tendono ad “annerirsi”, l’angioa, come voce dell’alice e non della sarda, che, quando è condita allo stato di larva non s’annerisce, puntualizzerebbe la sua Herkunft “ogliarola”? Cioè calderaia, noire, che annerisce, fa fumo, fa “ombra”, autodefinendosi gli “ogliaroni” stessi col nome di “ombroni”?
Giovanna I d’Angiò butta i falli e la possibilità di produrre larve nel mare[iii]; l’”ogliarona” sala e “impeperona” le alici “nonnate”, fa, cioè, il verso, il controcanto, all’Anjou, che salava i cazzi, salando le alici, sala l’angiòa.
La Regina ninfomane annulla il problema della riproduzione dando sale al fallo; l’ “ogliarona” risolve il problema del metabolismo e della sussistenza dando sale all’angiòa. Sono entrambi risposte culturali: la prima è la soluzione del controllo sociale, la seconda è la soluzione dell’economia.
Il glossario latino-volgare conservato nella Biblioteca Palatina di Parma, il manoscritto Parm. 1441, di cui riferisce Luigi Vignali, per Angluvia[iv], ha questo testo: “Angluvia, vie f. l’angioa vel l’alice quasi ingluvia quod ad ingluciendum sit apta: acuit enim, si salsa sit, appetitum”[v].
L’appetitum dell’Angiò, si salsa sit, è leggendariamente acuito, ed è sessuale; l’appetitum dei discendenti di Amantea acuit enim dalla golosa, vorace, ingluvia consumazione delle “angioa”, ed è alimentare.
In ogni caso, l’angioa quod ad inglucindum sit apta: acuit enim, salata sessualmente o alimentarmene, appetitum.
Ma l’angioa sotto sale, e peperoncino, è anche “mustica” ad Amantea, ossia vaso di terracotta in cui si conservano sott’olio i bianchetti con sale e peperoncino piccante. Cioè il contenuto prende il nome dal vaso(=mustica) che lo contiene e conserva.
Questa preparazione, che la si vuole di origine araba se non greca, ha anche nella denominazione mustica la provenienza  plantegenetica, normanna: difatti, il termine “angio”(greco:angêion, “vaso”) nelle parole composte scientifiche significa “vaso sanguigno”: la mustica, il vaso e la nonnata tutta rossa, ricorda il vaso sanguigno, rosso, e proietta connotazioni profonde e lontane, alludendo al vaso pieno di nonnate della grande zoccola di Amantea, la Reine d’Anjou.
La variante della voce volgare di angioa in ingiova o in giove o angioma accredita ancor di più la connessione dell’acciuga, e quindi della mustica, con Giovanna  d’Angiò: l’ingiova allude direttamente al vaso di Giova(nna); l’ angiove, o angioma, è una variazione nasale tipica della modalità


[i] Giovanna I(1326-1382), regina di Napoli dopo la morte di Roberto I(1343), fu ritenuta complice dell’uccisione del marito Andrei d’Angiò. In seguito sposata a Luigi d’Angiò di Taranto. Fuggì ad Avignone dopo l’invasione del re d’Ungheria. Ritornata a Napoli(1348) dopo la morte del secondo marito, sposò Giacomo d’Aragona e poi Ottone di Brunswick. Destituita dal papa  Urbano VI, fu fatta strangolare dal nipote ed erede Carlo d’Angiò, duca di Durazzo.
[ii] Luigi Vignali, Un glossario latino-volgare quattrocentesco e il Vocabularium Breve di Gasparino Barzizza, in : Studi di Storia della Lingua Italiana offerti a Ghino Ghinassi,a cura di P.Bongrani, A,Dardi, M.Fanfani, R.Tesi, Le Lettere, Firenze 2001: vedi in particolare il paragrafo IV Voci delle Annotazioni linguistiche sulle corrispondenze volgari: pag.71.
[iii] Ma anche Giovanna II(1371-1435), che fu regina di Napoli dal 1414 al 1435, non fu da meno in fatto di allecule o di ingluvie: del ramo albanese dei Durazzo, dinastia che si estinse proprio con questa grande fornicatrice, sembra che in fatto di salagioni falliche – per via del mare che bagna l’immaginario dei popoli costieri non solo slavi – sia stata una degna epigona dell’ava, che, detto tra noi, era meno Angiò – e quindi meno Angiòa ? – di questa, essendolo divenuta per  aver sposato, e cornificato, prima, andrei(che, “curnutu e mazzijato”, lei fece uccidere) e, poi, Luigi d’Angiò di Taranto.
[iv] Luigi Vignali, loc.cit., in particolare Il Glossario,numero [58], pag.12.
[v] “Le spiegazioni dei lemmi latini nei glossari del Barzizza o del Cantalaccio sono fortemente dialettali, in quanto mirano solo a far capire le parole latine a scolari che non sanno altro che il loro dialetto. I campi per cui è più difficile l’intercomprensione sono quelli pratici: per indicare, ad esempio, gli oggetti domestici o le piante non adoperate praticamente, non si hanno altri nomi che quelli locali o regionali. Un po’ di più circolano i nomi dei pesci, per esigenze del mercato; ma quelle che il Sacchetti e il Burchiello chiamano acciughe sono anchiovi per il Boiardo”: Bruno Migliorini, Storia della Lingua Italiana, Capitolo VII, Il Quattrocento, Bompiani 9, Milano 2001: pag.268.


•[L’illustrazione è un fotomontaggio tra  l’asino di Russ Meyer  che “allec” e Nostra  Signora del Poetto] 


[da: V.S.GAUDIO, druuna e il culo di gnesa. Storie falliche e amorose indagini con un test, Ó1996-1999]                                                           DRUUNA E IL CULO DI GNESA

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