Laura Pausini e la lancia di Peleo│Massimo Sannelli



 
Mi sto specializzando in atti incongrui. Osceni no, non credo; ma incongrui sì. Ci sono autori di cui è meglio non parlare così; e stili ancora più vietati: se inietto Laura Pausini in Dante, faccio un danno, per esempio. La pena è perdere piede, perdere spazio, perdersi e farsi perdere. In fondo – e nel fondo – il maestro dell'infanzia è ancora in agguato, e anche la maestra di pianoforte e i suoi simili: «Dove vuoi arrivare?». Non lo so, ma ci arrivo, questo è sicuro. Il selvatico può anche salvarsi, e se si salva fa danni, perché ha buona memoria. E negli anni si è esercitato su due piani: ricordare bene, fare di tutto.
Così si è inventato il suo piccolo bushidō occidentale: niente di sanguigno, è chiaro, né seppuku né omicidi vari. Non ucciderà nessuno. Un giorno, forse, ucciderà Nessuno, con la maiuscola: cioè il suo passato. Intanto naufraga nel primo tempo dell'op. 132 di Beethoven: ma questo – questo – non è un passato da uccidere.
Non è questo che volevo dire. Volevo approfondire una cosa importante. Gesualdo Bufalino ha scritto, in margine a Museo d'ombre: «e di ricordi mi ammalo, e coi ricordi mi curo». La mente scatta sùbito. C'è qualcosa che funziona troppo bene: è il sapore della citazione dentro la citazione, l'eco dell'eco, qualcosa del genere. Prima di tutto c'è un'ambiguità: una cosa fa male, ma la stessa cosa è medicina. Ecco lo scatto dell'esercizio: la lancia di Peleo e di Achille, che ferisce e cura il ferito. Per esempio nel canto XXXI dell'Inferno, all'inizio: la stessa lingua morde e poi risana, la lancia dà prima una «trista», e poi una «buona», «mancia».
Non è un gioco banale, perché si trova qua e là nella poesia del Duecento, attraverso Ovidio. E poi il discorso del mordi-e-sana continua oltre, anche senza lancia. Continua in tutti, non solo nella letteratura, e ci mancherebbe altro. Pavese si colpisce duro con la lancia di Peleo, tra il 1945 e il 1950: «Sei la terra e la morte», «Sei la terra e la vigna», «Sei la vita e la morte». Poi Bufalino, appunto. Anche Laura Pausini ha cantato che l'amore è «il migliore dei miei mali», finché rimane.
La stessa lancia fa male e fa bene, come la medicina di Pinocchio: è amara, ma ti farà bene. Il problema è qui: i ricordi di Bufalino, la donna di Pavese, la medicina di Collodi, l'uomo di Pausini – che cosa sono, in realtà? Il principio di non contraddizione non vale più, in qualche caso. Ecco: sono i casi dell'amore, oppure di quella variante dell'amore che è l'amicizia. In ogni caso: il rapporto, l'altro da me, e il dáimon della relazione che si crea. Quando Giorgio riflette sulla possibilità di uccidere Ippolita, tutto è chiaro: la relazione è un mistero, il vicino è un possibile omicida, la vicina si chiama anche «Nemica», e nel Trionfo della morte di D'Annunzio è proprio così.
I serpenti tormentavano gli Ebrei nel deserto. Allora Mosé fece un serpente di bronzo: chi era morso dal serpente vero guardava il serpente finto, e viveva. È parola di Dio, nel libro dei Numeri, e un serpente di bronzo si trova anche oggi nella Basilica di Sant'Ambrogio, a Milano. A dire il vero, è una strana parola di Dio, che ribalta l'anatema sugli idoli. Ma Aby Warburg studiò, vide e capì: «Colui che ha ferito, guarirà». Il serpente, la donna, il ricordo, l'amore maschio o l'amore femmina fanno il male e ridanno il bene. Niente è vicino come la causa all'effetto, no? E allora tanto vale che la causa si sbrighi a strisciare indietro, e sia causa di due cose opposte.
Salvarsi – essere salvati – significa una cosa molto semplice: tenersi – o essere tenuti – in vita, un po' di più. Non c'è da sottilizzare tanto e non è in gioco la morale, ma la pelle; d'altra parte, non ho chiesto io di essere morso, punto, lacerato. Il serpente, il ricordo, la lancia, la donna, l'uomo, devono correre. L'ha scritto anche Hölderlin in Patmos: «Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch». Dove c'è pericolo, arriva la cosa che salva. Meno male, ma il bello è che il pericolo e la medicina sono uguali. O meglio: gli artisti amano crederlo. Così un'identità molto pratica e molto arcaica ghigna sempre, sotto le parole dei letterati. E noi – i letterati – siamo le sue antenne, per parlarne ancora una volta; e siamo anche le sue cavie, perché si sperimenta tutto, e non ci facciamo mancare nulla, purché faccia male. Chi si è salvato sopravvive, grazie al serpente: in quali condizioni non si sa, ma si è salvato. E così torno alla rivelazione dell'inizio: il selvatico si salva. Meglio così, ma tutta questa maledizione del creativo ha stufato. Prendo la parte migliore, che è tenersi in vita. E tu sei sempre il migliore dei miei mali.