Armando Adolgiso • Coccodrilli



Coccodrilli
di

Nel Glossario dei Giornalisti, alla voce “coccodrillo” si legge: Articolo commemorativo di un personaggio. E’ pubblicato in occasione della sua scomparsa; in realtà di solito, è già confezionato da tempo.
E’ da ritenersi, quindi, che il prezzolato redattore pianga falsamente l’estinto, e lo faccia perché glielo impongono gli obblighi professionali: il contratto collettivo di lavoro se si tratta di un interno, o un cachet se è un collaboratore esterno.
Il coccodrillo che ora vedrete nuotare (insieme con altri 14) piangono tutti lo stesso morto: il sottoscritto.
Sarò protagonista di quest’operazione, immaginando che la salma da chiosare sia la mia.
Fare un coccodrillo a sé stessi è operazione che altri hanno fatto prima di me, ma qui, se novità c’è, risiede nella variazione di scrittura attraverso cui tento di cogliere i vari redattori all’opera nell’atto di misurarsi con lo stesso defunto, illustrato secondo una molteplicità d’intenzioni, quindici per la precisione. Perché quindici? Perché tante sono le lettere che compongono il mio nome.
E questa – insieme con una pari lunghezza di ogni testo – è la regola che mi sono imposta.
La maggior parte delle parole che seguiranno, com’è nel mio stile, non le ho scritte io, sono largamente  il frutto del montaggio operato fra molti luttuosi brani apparsi sulla stampa, da me collezionati nel tempo; articoli di firme famose, meno famose, e pezzi redazionali anonimi.
Vedrete all’opera di volta in volta, ad esempio, l’affettuoso, l’apologeta, il citazionista, l’enigmista, l’ermetico, il frettoloso, l’indiscreto, il malevolo, il menagramo, lo sbadato, lo scanzonato, il vago…
Non mi resta che augurare buon appetito al coccodrillo. E buona digestione.
                                                                                                                           L’autore
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Il Malevolo

Talvolta il coccodrillo è redatto dalla penna di chi mal sopportava la figura scomparsa.
Allora, pur manifestando apparente stima e finta amicizia, il redattore coglie l’’occasione per azzannare la salma con un ultimo morso piantandogli le zanne fra le righe.
E’ chiaro che io, come mostra l’esemplificazione seguente, sia stato per anni sulle palle di chi ora mi mastica. In tutto il testo, infatti, serpeggia astuta la volontà d’offendere il cadavere rilevandone con malizia inanità e irrilevanza.
Che cosa abbia mai fatto a costui, vi giuro, non me lo ricordo.
Assai eloquente è già l’incipit che maschera appena un sospiro di soddisfatto sollievo, seguito dalla prima frecciata.

Armando Adolgiso se n’è andato.
In silenzio, come aveva vissuto.
Solo in ritardo abbiamo appreso della sua scomparsa perché la stampa quotidiana ha del tutto ignorato quella notizia che tanto ha turbato chi scrive su questa stessa rivista che ospitò un tempo suoi interventi. Ricordo che gli articoli di Armando suscitavano perplessità per quel suo modo aggressivo, perfino brutale, di porre le questioni letterarie. Ma quei modi costituivano l’essenza stessa della sua natura cauta ma aizzatrice fino all’assurdo, della sua quieta maniera, eccessiva ed effimera, di vivere la vita e l’arte.
Dell’attività di Adolgiso nello spettacolo (spaziò dalla radio al teatro, dalla tv perfino alla pubblicità), qui non mi occuperò. Non la conosco così diffusamente da esprimere un argomentato commento. Alcuni che meglio sanno di lui in questo campo in cui operò a lungo, sostengono che accanto a momenti di grazia registica, vi furono spesso discontinuità, concessioni allo share e al botteghino. Mi astengo da ogni giudizio, come ho anticipato poco sopra. Ricordo soltanto che una volta m’invitò a un suo spettacolo e dimenticai d’andarci, ancora me ne dolgo, e più di ieri sapendo che mai più potrò ricevere da lui un nuovo invito.
E’ sul letterato, sullo scrittore, che, invece, intendo soffermarmi.
La sua produzione è tutta puntata sull’azzardo, il rischio, la scommessa (pur senza posta in gioco perché respinta dai tanti che, a torto, quella scommessa la ritenevano irrilevante).
Trascurato dalla critica, rifiutato da più editori, ignorato da troppi lettori, fu questo il suo destino di cui talvolta si mostrava ridacchiando fiero (ma dobbiamo credergli?), o non c’era forse dietro quella sua fanciullesca insolenza, inconfessata amarezza? Chissà!
Un gioco estremo che per più versi gli è stato fatale.
Di certo, quell’ostinato negare e negarsi alla narrativa, il maniacale disprezzo per la forma-romanzo, la dispettosa lontananza dagli statuti linguistici tradizionali, lo pone in una terra di nessuno, waste land abitata dagli sconfitti, dai dimenticati, dagli esclusi. Una sorte cercata? Non so. Incontrata per caso? Forse. Insomma: farsi beffe della letteratura accettando (ma ancora una volta dobbiamo credergli?) che la letteratura si beffasse di lui.
La sua poetica è coraggiosamente giocata accogliendo i termini del Niente e del Nulla, da lui voluti indispensabili come l’acqua e l’aria, formando così un progetto letterario terra-aria, terra-acqua, anzi terra-terra che sprofonda in Abisso.
Abile sulla pagina fino a una consumata scaltrezza, sembra ripercorrere nei suoi libri la leggenda delle astuzie di Sisifo, non sfuggendo infine alla stessa pena inflitta dagli dei al figlio di Eolo, la fatica di sostenere il fardello del gioco letterario, senza tregua e senza fine.

Voglio immaginarmelo mentre scriveva il suo ultimo rigo che non conosciamo e che lui non sapeva essere l’ultimo, e dire alla sua penna quelle parole immaginate da Maurice Blanchot: “…Fermati! Con quale scopo continui ad avanzare? Possibile che non ti accorga che il tuo inchiostro non lascia traccia?”. 


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a cura di Carlo Marcello Conti e Lamberto Pignotti
numero monografico n.10-1988 di "Zeta"
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